MADRI ASSASSINE E IRRESISTIBILE IMPULSO 
[1]

di Ugo FORNARI  [2]

“Non volevo farlo”, “è stato più forte di me”, non so cosa mi sia successo”, “non so, non ricordo”: queste ed altre sono le esclamazioni e i drammatici commenti che spesso sottolineano i passaggi all’atto di madri che uccidono i propri figli e che poi cercano invano di darsi e offrire una qualche spiegazione al loro gesto. D’altro canto, i tecnici della psiche, come i “non addetti ai lavori”, troppo frequentemente collocano questi passaggi all’atto nell’ambito della patologia psichiatrica, anche se l’esperienza clinica e forense insegna che non esiste nessun nesso obbligato tra disturbo mentale e comportamento violento.

Tuttavia l’attesa sociale, quella dell’inconscio collettivo, è che l’omicida sia un malato di mente, perché solo in questa maniera la più parte delle persone riesce a spiegarsi l’efferatezza di gesti che ritiene essere a lei estranei. Per la più parte delle persone, esperte o meno in questioni criminologiche, lo stigma tranquillizzante della patologia mentale “allontana” l’autore di reato; in lui (lei) non ci si può identificare, dal momento che lui o lei è malato (a). La psichiatria, per canto suo, da sempre ha costruito e alimentato il desiderio/bisogno di inquadrare il passaggio all'atto o l'«irresistibile impulso» in qualche casella alfa numerica.

Nel tempo, questi agiti sono stati ricondotti a categorie diagnostiche ormai desuete quali la monomania impulsiva, il raptus, la pazzia morale, l’epilettoidismo, l’isteria; in tempi più recenti al discontrollo episodico e, infine, il disturbo mentale transitorio.

L’inquadramento psicopatologico più ricorrente risulta essere stato ed essere tuttora quello di addebitare questi terribili passaggi alla depressione maggiore delirante e inscriverli nell’ambito del “suicidio allargato” [3].

In questi casi si tratta un delitto di natura «altruistica», legato com’è nella mente malata del depresso ad un proposito di «difendere» i propri familiari e sottrarli, con la morte, ad un destino di privazioni, miserie, umiliazioni, rinunce, insuccessi. È un estremo atto d’amore, compiuto quasi sempre da un genitore che uccide la creatura o le creature amate, non odiate o temute (come nel caso dello psicotico paranoide che passa all’atto quando è «convinto» di avere finalmente individuato i suoi persecutori), con lo scopo di risparmiare alle vittime una vita di miserie e di malattie e di proteggerle — con la morte — da un futuro di angustie, di miseria e di infelicità, di cui il malato si sente responsabile (delirio di colpa e di rovina). Per lo più vengono uccisi i figli più piccoli, appunto perché ritenuti i meno idonei ad affrontare da soli le presunte avversità della vita. Le idee deliranti di dolore e di rovina universale possono spingere questi malati a vere e proprie stragi, scegliendo le vittime sempre dell’ambito familiare. Con assoluta frequenza, all’uccisione dei familiari segue il suicidio (attuato o tentato) del malato.

In questi casi si ha premeditazione dell’atto e precoce apprestamento a distanza dei mezzi. Spesso è evidente una assoluta anestesia psichica ed emotiva dopo il fatto, quando questo è stato compiuto con «freddezza» e accuratezza, dopo una lunga premeditazione, frutto dell’autismo psicotico di cui il malato si è circondato.

In altri casi, il reato avviene durante un improvviso scompenso psicotico. Questi repentini passaggi all’atto sono stati anche etichettati sotto il termine di raptus, termine del tutto improprio e di interesse preminentemente storico. Il raptus, inteso come turba episodica accessuale del comportamento gestuale e motorio, consiste nel bisogno imperioso ed incoercibile di compiere improvvisamente e repentinamente un gesto o un'azione violenta, dannosa per il soggetto o per altri, la cui esecuzione sfugge al controllo dell’autore di un simile atto.

In effetti, è molto difficile, se non impossibile, fornire un preciso contenitore psicopatologico a un siffatto comportamento, in cui si riconoscono significati patologici e percorsi clinici non sempre sovrapponibili e che spesso richiede modelli di lettura diversificati.

Si può convenire di intendere modernamente il raptus, a seconda delle categorie psicopatologiche in cui si verifica, nei seguenti modi (reazione a corto circuito,nei disturbi di personalità semplici e gravi; raptus ansioso, quale si nota nelle reazioni nevrotiche acute; automatismo psicotico nelle bouffées deliranti e nelle sindromi confusionali acute, nel corso della psicosi schizofrenica, del disturbo delirante e della fase depressiva delle psicosi affettive; impulso patologico, infine, è il passaggio all'atto che si osserva nelle psicosi organiche specie epilettiche, etiliche e demenziali e nelle insufficienze mentali). Questa classificazione, puramente descrittiva e non sistematica, non ha, a mio modo di vedere, nessun diritto di autonomia psicopatologica..

Anche il discontrollo episodico è nozione introdotta nel 1956 nella letteratura psichiatrica da Menninger e Mayman che ha un interesse solo più storico.

Con linguaggio moderno, il tema è stato in parte ripreso sotto la dizione di disturbo mentale transitorio (D.M.T.), meglio collocato nel D.S.M.-IV nelle categorie del Disturbo Psicotico Breve (la Psicosi Reattiva Breve del D.S.M.-III-R) e del Disturbo Schizofreniforme; e iscritto, nell'I.C.D.-10, nella Sindrome psicotica acuta e transitoria (che include le reazioni paranoidi acute; la schizofrenia acuta; le bouffées deliranti acute con o senza sintomi schizofrenici; le psicosi reattive brevi; le psicosi cicloidi con o senza sintomi schizofrenici). Si è di fronte, nella sostanza, ad un disturbo delirante acuto con esclusione che si tratti di un episodio maniacale o depressivo maggiore(occorre, cioè, escludere la presenza di un Disturbo Psicotico dell'Umore); occorre pure escludere la presenza di una causa organica (in questi casi, ci troviamo di fronte a un Disturbo Confusionale Acuto).

Giunti a questo punto, si può dire che il reato d'impeto e l'irresistibile impulso possono verificarsi in cinque situazioni sostanzialmente diverse tra loro:

1. Disturbi Deliranti Acuti, ,appartenenti alla serie schizofrenica (disturbo schizofrenico o schizoaffettivo) o delirante acuto e in cui siamo al di fuori della psicosi organiche e di quelle affettive, in cui pur si possono osservare quadri di scompenso acuto. Nei primi predomina la componente confusionale (per cui lo stato di coscienza è molto più compromesso), nei secondi quella timica. Occorre di ciò tenere conto per quanto riguarda il problema della diagnosi differenziale rispetto ad una manifestazione iniziale di un disturbo affettivo (in particolare un episodio maniacale acuto) o secondaria a un disturbo organico cerebrale. Analoghi quadri si osservano nel corso di stati febbrili o di malattie tossi-infettive, o di intossicazioni esogene (intossicazione acuta da alcol o da stupefacenti).

2. Disturbi Gravi di Personalità. In essi à in azione il funzionamento proprio dell’Organizzazione Borderline di Personalità, il passaggio all’atto è caratterizzato dagli indicatori comportamentali di disorganizzazione e sono descritti in anamnesi e sono obiettivabili in riferimento all’episodio delittuoso sintomi quali perdita di unitarietà dell’Io, panansietà e panangoscia, perdita dei confini, alterazioni del sentimento o dell’esame di realtà.

3. Disturbi di Personalità. Esistono, poi, passaggi all'atto in cui disforia ed impulsività (i due tratti più tipici) fanno parte di disturbi di personalità di tipo Paranoide, Antisociale e Narcisistico Maligno. In essi si coglie una persistenza di "stile di vita" abnorme, senza segni di scissione o di dissociazione dell'Io o di perdita di unitarietà dello stesso. Il comportamento è organizzato, finalizzato, cosciente, strutturato, coerente con le direttive di fondo della personalità.

4. Reazioni da stress. Esse appartengono al gruppo delle sindromi nevrotiche (I.C.D.-10 = F40-F48). Tali sono i passaggi all’atto che si registrano nelle reazioni a stress (rispettivamente denominati nell’I.C.D.-10 e nel D.S.M.-IV: reazione acuta da stress o disturbo acuto da stress; sindrome post-traumatica da stress o disturbo post-traumatico da stress), nelle sindromi da disadattamento, nelle sindromi ansiose e nelle sindromi dissociative (D.S.M.-IV = F43.0; F43.1 e, in genere, i Disturbi d’Ansia; nonché i Disturbi Dissociativi = F44.1; F44.81; F48.1; F44.9).

5. Stati emotivi o passionali. Infine, esistono passaggi all'atto che si iscrivono in un semplice stato emotivo o passionale, senza che si possano individuare nell'autore di reato altro che "tratti" di personalità, che, tra l'altro, si manifestano anche nelle sue emozioni e nelle sue passioni.

In altre parole, una cosa è lo sconfinamento psicotico (punti 1 e 2); altro è il contenimento nell'abnormità genericamente intesa (punti 3 e 4); altra cosa, infine, è il passaggio all'atto che si inserisce in un'esistenza in cui agire emozioni, passioni, conflitti (punto 5) nulla ha a che fare con una esperienza psicotica o con un Disturbo Grave di Personalità.

A questo punto, voglio ricordare l'importanza che, nella genesi dell'atto involontario(o incontrollabile impulso, o forza irresistibile), molti ricercatori hanno conferito alla disfunzione cerebrale episodica, in cui chiari sono gli agganci con il terreno "organico" e, in particolare, con quelle lesioni del lobo limbico che sono state invocate per spiegare la compulsività violenta e distruttiva. Il lobo limbico, a sua volta, è funzionalmente correlato con la corteccia fronto-temporale e questa con altre aree nella modulazione del comportamento aggressivo e violento. La variabilità individuale di tale comportamento e della sua componente emotiva è però una caratteristica che non può essere eziologicamente ridotta e ricondotta a caratteristiche neurobiologiche precise (a esempio, diminuzione del flusso ematico nella corteccia orbito-frontale), se non in presenza di una patologia organica ben individuata.

Questa e altre suggestive ipotesi, però, devono essere suffragate da prove e studi ben più convincenti. La neuropsicologia, in particolare, può offrire un valido aiuto alla ricerca di risposte e alla costruzione di inquadramenti clinici e di procedure valutative maggiormente fondate sull’obiettività e quindi sull’evidenza dei dati, ma la clinica ancora una volta rimane sovrana nell’interpretazione e nella valutazione degli stessi.([4])

Queste drammatiche condotte umane, però, possono anche non essere spiegate e ricondotte necessariamente nell'ambito ristretto della psicopatologia o della neuropsicologia, nel senso che, alla radice del funzionamento mentale di molte madri assassine, esistono anche serie motivazioni psicogenetiche e psicodinamiche che nulla hanno a che spartire con la patologia psichiatrica maggiore.

Innanzi tutto, occorre escludere da questa disamina percorsi motivazionali quali: la crudeltà perversa delle madri abusatrici (battering mothers), la gelosia (Medea), il fanatismo religioso (Agamennone), l’insoddisfazione per una maternità subita(Teti) e altre fabulae mitiche.

In molti casi in cui giovani donne uccidono i loro bambini durante o nell’immediatezza del parto, in una condizione di abbandono psicologico e materiale (feticidio, infanticidio e neonaticidio), si possono documentare quadri di disarmonia evolutiva, tratti specifici di personalità, gravidanze non (più) desiderate, condizioni di solitudine e di mancata comunicazione ad altri delle proprie condizioni, presenza di un compagno descritto come inadeguato e dipendente e vissuto in maniera molto ambivalente (conflittualità con il proprio compagno). E ancora: l’inevitabile turbamento emotivo che accompagna il travaglio e il parto, le abbondanti perdite di sangue, la mancanza di un’assistenza adeguata, sono tutti fattori che, tra di loro diversamente combinati, si trovano alla base dei vissuti che precedono e accompagnano questi delitti, in cui l'elemento di «scompenso» può essere con sufficiente certezza identificato nella comparsa di disturbi della serie depressiva (senza che la sindrome depressiva sia completa). In genere si tratta di adolescenti o di giovani donne dotate di un patrimonio intellettivo ampiamente compreso nella media e che, superato il comprensibile turbamento emotivo che segue il parto e l’immediato periodo successivo, appaiono attente e sorvegliate nel dire, capaci di esercitare un ottimo controllo sulle proprie emozioni e sui propri vissuti, congelate sul piano affettivo-relazionale. L’eventuale diagnosi di “disturbo dell’adattamento” con aggiunta di varie altre aggettivazioni non significa altro che la presenza di sintomi di tipo depressivo ansioso reattivi a un evento emozionalmente significativo (il parto e quanto successivamente accaduto) con cui sono in chiaro rapporto causale e di assoluta comprensibilità. I processi psichici e il funzionamento mentale di queste donne, a parte un legittimo, comprensibile e motivato turbamento emotivo probabilmente presente al momento del fatto e in coincidenza con il parto (il che, tra l’altro, esclude ogni ipotesi di patologia mentale), sono stati e sono tali da non incidere sostanzialmente sulla registrazione, ritenzione e rievocazione mnesica. La loro memoria dichiarativa (quella, cioè, che si riferisce ad avvenimenti di cui si è stati testimoni o si è fatta diretta esperienza), in genere, non è compromessa da una qualche forma di patologia mentale maggiore. Il loro funzionamento mentale risponde semplicemente a particolari strategie psicologiche più o meno inconsce, in cui intervengono secondari (la rimozione e la proiezione) che preservano e mantengono equilibri interni e percorsi dinamici raggiunti e mantenuti con difficoltà variabile. In tal modo, queste donne continuano a tenere nel “privato” un fatto così innaturale come uccidere la creatura cui si è data la vita e che è e continua a essere una parte del proprio sé, un oggetto interno che appartiene solo a loro, anche nella morte. Così vengono nascoste e negate la gravidanza e addirittura la nascita e, attraverso i “vuoti di memoria” allegati in riferimento all’immediato post-partum, viene negata anche la morte attraverso un gesto che assume significato di un rituale simbolico di incorporamento. Il feto o neonato viene infatti sempre nascosto e occultato alla vista di tutti, compresa quella della madre.

Più complessa è la situazione clinica quando invece intervengono meccanismi difensivi primari (la negazione la scissione e l’identificazione proiettiva) che possono orientare l’inquadramento diagnostico verso la presenza di un Disturbo grave di personalità, di ben altra rilevanza sia a livello terapeutico, sia valutativo.

Diverse sono criminogenesi e criminodinamica del figlicidio. In questo tipo di reato, sul quale ha scritto pagine egregie e fondatali la prof.ssa Merzagora ([5]), quando non intervengono disturbi depressivi maggiori, come nei casi di infanticidio o di feticidio, sono stati chiamati in causa disturbi di personalità (in particolare quello Borderline), storie di abuso o di comportamenti tossicomanici, ma, innanzitutto, un importante deficit della funzione materna.

Questo deficit può assumere, nei casi più gravi, la forma di quella che è stata chiamata una “maternalità delirante” o una “preoccupazione materna primaria delirante”, che va a sostituirsi a quella “preoccupazione materna buona” che è invece condizione ed esperienza sulla quale si fondano sia l’identità personale sia la possibilità dell’assunzione di una identità materna.

Anche nei casi meno gravi dal punto di vista psicopatologico, o nei quali una psicopatologia in senso stretto è assente, vi sarebbe, però, al fondo dell’agito figlicida almeno un sentimento inadeguato o conflittuale (quando non pervaso da meccanismi psicotici) della maternità. E’ la situazione di quelle madri che, non avendo avuto o essendo il loro vissuto quello di una deprivazione affettiva da parte della madre, non sono state in grado di adeguatamente identificarsi con una figura materna oblativa ed affettuosa. Si costruisce allora in queste donne-bambine, per un difetto di apprendimento, un importante deficit di identificazione con la figura materna, che a sua volta si traduce in un sentimento inadeguato della maternità: sentimento che costituisce un terreno di vulnerabilità che varie evenienze stressanti o condizioni problematiche (personali, ambientali, coniugali, ecc.) possono precipitare.

Per di più, alla svalutazione ed all’algida severità materna (la “madre morta”) ([6]) questo tipo di donna non ha saputo e non sa opporre alcuna articolata strategia difensiva, né sembra aver appreso nel corso della vita difese di una certa efficacia. Fra i guasti della mancata identificazione con una figura materna affettuosa, ma anche accudente e responsabile, vi è l’immaturità di cui queste donne danno costantemente prova (non completata maturità affettiva ed emotiva). Delle tappe di una vita di sposa adulta –il matrimonio, la gravidanza- vedono solo gli esordi festosi, le celebrazioni ludiche, le occasioni di stupire e di stupirsi; non reggono, viceversa, l’assunzione di responsabilità, l’impegno quotidiano, la fatica e il tedio. Rimangono, insomma, come la dickensiana Dora, la “moglie bambina”, e per lungo tempo si oppongono al desiderio di generatività, non sentendosi pronte.

Se quella testé descritta è la dinamica motivazionale che più spesso e con maggiore pregnanza si coglie, ve n’è da citare almeno un’altra, fra l’altro strettamente connessa alle prime due: la situazione delle madri figlicide perché incapaci di far fronte ai compiti materni, perché inadeguate a tali funzioni. Oggettivamente queste donne non sono madri incuranti o inette (e men che meno maltrattanti); ma un “sentirsi” madri incapaci rinfocola la loro confusione, i loro timori, la bassa autostima, nutre l’ambivalenza, il sentirsi inadeguate, incapaci, inette.

Un ulteriore elemento di spiegazione psicologica è quello della non presenza/accettazione dell’ambivalenza dell’amore e dell’odio che sempre accompagna la condizione della maternità. Nulla di eccezionale in questo: davvero noi amiamo e basta i nostri familiari, senza riserve, senza ambiguità, senza tentennamenti? Le madri amano senza mai chiedersi come potrebbe essere diversa –e per certi versi migliore- la loro vita senza il tanto amato impiccio? Se non ci fosse nella donna qualcosa di terribilmente forte, quale l’istinto di vita, davvero potrebbe solo amare lo sconosciuto che le altera l’aspetto fisico e l’immagine corporea per nove mesi, le complica la vita con disturbi da gestosi, è un corpo estraneo che abita il suo, la limita nelle sue attività, la costringe a plurimi esami e controlli, viene al mondo cagionando sofferenza, le succhia vita attraverso le mammelle (se la madre allatta), le produce notti insonni e via dicendo? Siamo seri e abbiamo il coraggio di non ricorrere ancora una volta al diniego della nostra ambivalenza: non esistono solo sentimenti positivi, senza il loro contrario. Non si può solo amare. Chi sostiene ciò, vuole negare l’altra faccia della luna, producendo a sé e ad altri guasti talora irreparabili. La maturità consiste invece nell’accettazione sdrammatizzata delle parti meno nobili di sé e delle contraddizioni dell’affettività.

Mentre le “altre” madri, quelle “mature” hanno potuto confrontarsi con una loro madre talora spazientita ma anche affettuosa, protettiva, amorevole, per queste non c’è questa possibilità/capacità; esse non possono/sanno fondere con realistica saggezza i due sentimenti, appianare, vedere nella giusta prospettiva, soprattutto integrare. Oscillano alternativamente, scompostamente e in un rapporto quasi confusivo, fra una visione del bambino amato perché “sangue del mio sangue”, e amato pacificamente soprattutto quando mangia e dorme, ed un bambino fonte dei loro guai, “compito troppo grande per me”, richiamo concreto alle sue responsabilità di madre che si prende cura e accudisce.

Altra tematica più volte denunciata da queste madri è quella della solitudine, o, meglio, del sentirsi sole, non capite, non sufficientemente aiutate dagli “adulti” che le circondano, in quanto non assistite e non accudite. Proprio per i motivi sopraesposti relativamente al rapporto con la madre, infatti, queste madri non hanno mai potuto sperimentare e apprendere da bambine quell’accudimento che fisiologicamente caratterizza, nei primi anni di vita, il rapporto madre/figlio, sicché la loro cifra relazionale non è tanto quella matura dell’aiuto reciproco, quanto quella del farsi prendere in carico, consegnandosi ai “grandi”.

Queste donne non sembrano aver compiuto il normale processo di separazione- individuazione che caratterizza la trasformazione della relazione fusionale in rapporto duale; come è accaduto per loro, il bambino non è mai divenuto “altro da sé”, ma è rimasto una parte di sé, un oggetto interno, alternativamente “parte buona” o “parte cattiva”, a seconda delle circostanze.

Tutte queste considerazioni riescono dunque a fornire al figlicidio altre spiegazioni che lo collocano in un’ottica di “psicologia del comprensibile”, pur non escludendo la dimensione strettamente psicopatologica nei casi in cui essa è presente.

Posto che esista un identikit della madre figlicida connotato fondamentalmente da un deficit della funzione e dell’identità materne, grave errore metodologico sarebbe però quello di sostenere che una madre che ha ucciso il proprio figliolo e non presenta tali caratteristiche non è una madre figlicida o viceversa.

Tutte queste considerazioni riescono dunque a fornire al figlicidio altre spiegazioni che lo collocano in un’ottica di “psicologia del comprensibile”, pur non escludendo la dimensione strettamente psicopatologica.

Una madre che uccide il proprio figlio merita tutta la nostra umana comprensione, ma questa non può tradursi in giustificazione di un atto che pur sempre omicidio è o nella trasposizione sic et simpliciter delle motivazioni psicologiche poste alla base del suo agire in un disturbo mentale che conferisca forzatamente e spesso artificiosamente “significato di infermità” al reato commesso.


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[1] Relazione tenuta al III Congresso Nazionale organizzato dall’OPG di Castigione delle Stiviere (Mantova), 22-24 gennaio 2009.
[2]Direttore Unità Operativa di Psichiatria Forense, Psicologia Giudiziaria e Criminologia Clinica, Università degli Studi di Torino, C.so Montevecchio, 38 – 10129 Torino.
[3]Questo termine fu introdotto nel 1911 dallo Strassmann il quale lo riservò a quei casi in cui «il suicidio fu il motivo primitivo e l’uccisione dei familiari, ad opera del padre o della madre, avvenne per non lasciare questi sopravvivere soli, senza aiuto». Strassmann F., Medizin und Strafrecht, Langenscheidt, Berlin, 1911.
[4]
Proprio a proposito dei punti 2, 3, 4 e 5 che prevedono situazioni cliniche e passaggi all’atto in cui è soprattutto la “capacità di volere” a essere ritenuta “compromessa”, occorre porre la massima attenzione alle ricerche in ambito neuropsicologico e di neuroimaginfunzionale che hanno dimostrato come nel processo di “prendere delle decisioni” (decision making) e, di conseguenza, nella regolazione e inibizione dell’impulsività e nel manifestarsi della stessa giocano un ruolo importante deficit lesionali e funzionali della corteccia prefrontale ventro-mediale e di quella dorso-laterale destra (v. per tutti BECHARA A., DAMASIO H., Decision-making and addiction (part I): impaired activation of somatic states in substance dependent individuals when pondering decision with negative future consequences, Neuropsychologia, 50, 7-15, 2002; BECHARA A., The role of emotion in decision-making: evidence from neurological patients with orbitofrontal damage, Brain a. Cognition, 55, 30-40, 2004. La valutazione dell’impulsività si avvale di scale (v. capitolo sui test mentali) e dello studio dei potenziali evocati (l’onda P300). Nessuna di queste ed altre misure proprie delle neuroscienze cognitive, però, è un indicatore sicuro di impulsività patologica. La neuropsicologia può dunque offrire un valido aiuto alla ricerca di risposte e alla costruzione di inquadramenti clinici e di procedure valutative maggiormente fondate sull’obiettività e quindi sull’evidenza dei dati, ma la clinica ancora una volta rimane sovrana nell’interpretazione e nella valutazione degli stessi.

A questo proposito, e con tutte le cautele e le riserve che si devono attualmente formulare alla luce dei risultati della ricerca svolta su piccoli gruppi di donne borderline pluriabusate nel corso dell’infanzia.

Gli studi di neuroimagingfunzionale sui pazienti borderline indicano anomalie nelle zone della corteccia prefrontale sinistra orbitale e mediale. Studi di neuroimaging strutturale hanno evidenziato volumi notevolmente ridotti delle regioni prefrontali mediale, orbitale (preposte alla modulazione e controllo delle emozioni e all’inibizione degli stati affettivi negativi provenienti dall’amigdala), dei neuroni a specchio e dei poli temporali (correlazioni significative con attaccamento insicure ed evitante).

In altri studi si è riscontrato un volume ridotto e un’iperattività dell’amigdala, (specialmente quella di sinistra) correlata alla tendenza a vedere negli altri personaggi negativi, cattivi, persecutori.

Alla risonanza magnetica i soggetti esaminati presentano volumi ridotti dell’ippocampo: il che spiegherebbe la compromissione nel borderline della memoria nella sua funzione sia di formazione dei ricordi (impliciti ed espliciti), sia di rievocazione, di correlazione e di conferimento di significato.

La ricerca neurobiologica, sempre su gruppi di donne borderline pluriabusate nel corso dell’infanzia hanno dato a registrare un rilascio eccessivo di cortisolo e di ACTH, fenomeno anch’esso correlato all’ipervigilanza persistente e alla percezione degli altri come persecutori e di se stesse come vittime.

Un incremento dell’attività della corteccia prefrontale dorsolaterale destra sarebbe in correlazione significativa con l’ansia di separazione e le tematiche legate all’angoscia da abbandono.

La Risonanza magnetica funzionale ha dimostrato le correlazioni tra la corteccia prefrontale (mediale e orbitale) e i compiti di mentalizzazione. Ad alterazioni di quella corrispondono difetti di questa.

Nella sostanza, minore attività delle regioni prefrontali (essenziali per la mentalizzazione) e maggiore attività dell’amigdala (ipervigilanza, iperreattività, stati affettivi negativi) sarebbero alla base dei fenomeni borderline. Rimane aperto il problema circa le reciproche correlazioni in tema di causa-effetto tra psicopatologia borderline e patologia neurobiologica.

(da: GABBARD G.O., Mind, brain and personality disorders, Am. J. of Psychiatr., 162, 648-655, 2005; DONEGAN N.H. e Coll., Amygdala hyperreactivity in borderline personality disorder: implications for emotional dysregulation, Biolog. Psychiatr., 54, 1284-1293, 2003; GABBARD GO. e Coll., L’interfaccia tra mente e cervello nel disturbo borderline di personalità, Relazione 2007, non pubblicata).
[5] A proposito di infanticidio e figlicidio, si veda l’ottima monografia di MERZAGORA BETSOS I., Demoni del focolare, Centro Scientifico Editore, Torino, 2003.
[6] GREEN A,. Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Borla, Roma, 1985.



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a cura di Aurelio Cannatà  Redazione informatica SIAECM

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