di Torino
una vita per la prevenzione
(La “vera” storia dei vaccini antipolio)
È stato uno dei più grandi pediatri e
ricercatori della Medicina (della Microbiologia e Virologia in particolare) del
XX secolo. A lui l’intera umanità deve la preparazione del vaccino attenuato
orale contro la poliomielite, che
sviluppò a partire dalle ricerche sulla coltivazione dei virus in terreni
cellulari. Dimostrò l’innocuità dei suoi virus attenuati assumendoli egli
stesso e somministrandoli alle proprie figlie (Amy e Deborah, avute dalla prima
moglie Sylvia Tregillus, di origine irlandese), su due collaboratori: un medico
messicano, Alvarez; un tecnico negro, Hugh Hardy; e su detenuti volontari,
dopo averli ovviamente studiati sugli animali (impegnandosi successivamente
nella diffusione del vaccino). Lo fece con molta onestà professionale,
dichiarando pubblicamente: “Solo per aver
conferma che non provocava effetti secondari negativi. Personalmente non
correvo infatti il rischio di ammalarmi perché disponevo di anticorpi
antipolio, avendo contratto il male in forma lieve da bambino “.
Nel contempo, un altro ricercatore, il dottor Jonas Edward Salk,
era invece reticente al riguardo. In anni recenti disse di aver provato lui
stesso il vaccino; ma all’epoca in cui il “Salk” fu distribuito il suo addetto
stampa, Al Kildow, dichiarò che “il
dottor Salk non ha sperimentato il vaccino su di sé perché la cosa non avrebbe
avuto un’utilità, non disponendo provatamente di anticorpi antipolio”. Ma
anche altri, che rifiutarono di andare avanti per primi, diedero spiegazioni
diverse. Alcuni dissero: “Il nostro
compito è di curare i malati, non di sperimentare nuove cure sui medici”;
altri, invece: “Lo stesso Ippocrate si
pronunciò contro la sperimentazione “ (il richiamo, alquanto ambiguo, è al
motto ippocratico: “vita breve, arte lunga, giudizio difficile ed esperienza traditrice”.
(Forse, con questa affermazione si voleva stravolgere volutamente il senso
dell’insegnamento del grande maestro di Coo).
Il dottor Southam (dello Sloan Kettering Cancer Center) affermò: “I ricercatori bravi sono molto pochi, e mi
sembra stupido far loro assumere dei rischi: quello è per me, un falso eroismo
“. Falso o no, è invece un eroismo che il mondo ammira, tra i malati e tra i
sani. Anche l’acuto e distinto dottor Albert Sabin attaccò le ricerche di Salk
dalle prime pagine di tutti i principali quotidiani statunitensi, e non solo
una volta, ma in continuazione… Secondo Richard Carter (uno dei primi biografi
di Salk) questo fu il tenore di alcune tra le più eloquenti stroncature di
Sabin: “Chiunque nella propria cucina
potrebbe realizzare ciò che ha fatto Salk “, oppure: “Salk non ha mai avuto un’idea originale in vita sua “. [Citato in R. Carter, Breakhrough. The Saga of Jonas Salk, Trident Press, New York 1966, pagg. 3 e 6].
Lo scienziato polacco
Ma l’uomo che in particolare vorrei ricordare in questa Assise, e
al quale è dedicato questo convegno, è Albert Bruce Sabin (il 3 marzo 2003
ricorre il 10° anniversario della morte), lo scienziato americano, di origine
polacca. Era nato nel ghetto di Bialystock (Polonia) il 26 agosto 1906, da
Jakob e Tillie Krugman, due artigiani ebrei che emigrarono in America. Quando
nacque la Polonia era territorio russo, e solo dopo la prima Guerra mondiale
tornò terra polacca. La città nella quale visse sino a 15 anni, era popolata
per il 70 per cento da ebrei; e tutta la sua famiglia era ebrea. “Fummo gli ultimi a rimanere lì -
raccontò più volte -, perché tutti gli
altri membri della mia famiglia, o erano partiti per l’America tanto tempo
prima, come mia nonna paterna, o vennero uccisi durante il pogrom “.
La vita per un ebreo, a quel tempo e in quei luoghi, era grama.
Sabin non aveva dei buoni ricordi di quando era bambino. “Avevo cinque o sei anni - prosegue -, e un giorno stavo sul marciapiede davanti a una chiesa con un mio
amico, anche lui ebreo, e cominciarono a tirarmi dei sassi urlando: “Tu hai ucciso il nostro Dio!”. Ero troppo piccino per capire bene; l’unica
cosa che capii è che un sasso molto appuntito mi colpì a pochi millimetri di
distanza dal mio occhio sinistro”. Poiché era nato non vedente dall’occhio
destro, ancora qualche millimetro e non avrebbe avuto una vita: sarebbe rimasto
completamente cieco (già… per qualche millimetro l’umanità sarebbe stata priva
di un grande scienziato).
Appena arrivato negli Stati Uniti (nel 1921) si stabilì con i
familiari a Paterson, nello Stato di New York; e ben presto, con l’aiuto di due
suoi cugini che frequentavano la Facoltà di Medicina, imparò l’inglese molto
velocemente, necessario per entrare in una scuola superiore. Conseguì la
Maturità nel 1923. Non possedeva denaro e fu costretto a lavorare dopo la
scuola per poter aiutare la famiglia (aveva un fratello e due sorelle). La
sorella di suo padre che era sposata con un dentista e aveva una figlia Silvya
Sidney (che anni dopo divenne una grande star del cinema), gli disse che se
avesse studiato Odontoiatria avrebbe potuto andare a vivere con loro a New York
e gli avrebbero pagato gli studi all’università. Non aveva scelta: si iscrisse
alla Facoltà di Odontoiatria alla New York University. A 20 anni il giovane
Albert era uno studente modello.
Ma ben presto cambiò idea. Dopo aver letto “I cacciatori di microbi”, un
bestseller dell’epoca scritto da Paul
De Kruif, ne rimase affascinato tanto da cambiare Facoltà e si iscrisse alla
Facoltà di Medicina, e precisamente al New York University Collge of Medicine
laureandosi nel 1931. Per due anni esercitò la professione all’Ospedale
Bellevue di New York City come assistente del dottor William H. Park, noto
microbiologo (famoso per aver debellato la difterite, n.d.a.), per poi trasferirsi all’Istituto Lister per
la Medicina Preventiva a Londra. Tornato a New York nel 1935, entrò nello staff
dell’Istituto Rockefeller per la Ricerca Medica dove fu il primo a dimostrare lo sviluppo del poliovirus in
tessuti nervosi extracorporei. Dopo esser diventato (1939) professore associato
in pediatria all’Università di Cincinnati (Ohio) Collegio di Medicina, prestò
servizio come direttore della Divisione di malattie infettive alla Children’s
Hospital Research Foundation dal 1939 al 1943.
ll prof. Sabin nel
suo Studio di Cincinnati
Ma ancora oggi, molti si chiedono perché scelse di studiare proprio
la poliomielite. “Iniziai quasi per caso
- raccontò più volte -, in quanto avevo
appena terminato gli studi alla Facoltà di Medicina a New York, nel 1931. Un
mese dopo scoppiò l’epidemia di polio. Avevo già fatto ricerche sulla
polmonite, una malattia che allora uccideva migliaia di persone… Fu il mio
maestro, dottor Park, a consigliarmi
di studiare la polio, quindi non per mia scelta. Fu l’unica volta che feci
qualcosa sotto suggerimento di qualcun altro, invece che per mia decisione.
Tuttavia, credo che il mio entusiasmo fosse la migliore raccomandazione. Certo
non mi imponevo per il sapere, per la cultura. Chissà, forse il dottor Park ha
fatto uno sbaglio. È stata solo fortuna “ (affermazioni, queste, che
denotano la sua umiltà e la sua modestia).
Durante la seconda Guerra mondiale il prof. Sabin interruppe le sue
ricerche sulla polio per prestare servizio nel Corpo Medico dell’esercito U.S.
(con il grado di tenente colonnello). In questo periodo isolò il virus responsabile
della febbre “sandfly”, epidemica nell’ambito delle truppe U.S. in Africa, e in
seguito sviluppò i vaccini contro la febbre “dengue” e l’encefalite giapponese.
Dopo la guerra ritornò all’Università di Cincinnati dove fu attivo dal 1946 al
1960 come professore di ricerche pediatriche, e si distinse come professore
effettivo (1960-1971) prima di diventare professore emerito nel 1971.
Collaborò inoltre con l’Università della Carolina del Sud a
Charleston, con il National Institute of Health in Bethesda; e dal 1969 al 1972
con il Weizamnn Insitutes of Health in Rehovot, Israel (un Centro di Ricerca
che gli israeliani hanno costituito ad imitazione del Princeton Institute). In
questa sede i suoi interessi si sono ampliati: oltre ai problemi della sanità e
dell’istruzione pubblica in Israele, si dedicò anche a quelli dell’integrazione
degli ebrei provenienti da culture diverse, e alla pace tra Israele e i suoi
vicini arabi.
L’evoluzione e la
trasmissibilità della malattia
L’agente eziologico è un virus, uno dei più piccoli e resistenti
che si conoscono; un virus potente, che divora letteralmente le cellule nervose
(neuronofagia), per le quali ha una spiccata predilezione (neurotropismo),
specialmente per quelle del midollo spinale che colpiva da tempo immemorabile.
Già su di una stele egizia della XVIII dinastia, vecchia di 3500 anni, è
raffigurato un sacerdote che presenta i segni tipici della poliomielite: atrofia e accorciamento di un arto inferiore. Questo
ed altri reperti archeologici attestano casi di paralisi di natura
poliomielitica che ci inducono a pensare alla presenza della malattia
nell’antichità.
Il virus della
poliomielite al microscopio
Tuttavia, solo alla fine del 1700 i trattati di anatomia patologica
fanno cenno ad un quadro clinico attribuibile con molta probabilità a tale
affezione. La poliomielite (dal greco polios,
grigio; e myelos, midollo), descritta
per la prima volta nel 1789 da Michel Underwood, ossia “Debility of lower extremities”, sta ad indicare - secondo la
successiva descrizione del 1874 di Kussmaul - la localizzazione anatomica del
processo infiammatorio che colpisce la sostanza “grigia” del midollo spinale, o
meglio quella parte di essa (corna anteriori o motrici) che controlla la
motilità del tronco e degli arti. Poiché spesso è (era, n.d.a.) colpito non
solo il midollo ma anche l’encefalo, prende il nome di polioencefalite.
O altrimenti malattia di Heine e Medin, come la
designa l’Enciclopedia Medica Italiana, dai nomi del clinico ortopedico che per
primo la identificò, il tedesco Jakob Heine, nel 1840; e del clinico pediatra
che meglio la descrisse, lo svedese Oskar Medin, nel 1881. Il patologo viennese
Karl Landsteiner e E. Popper nel 1908 (l’anno prima della scoperta da parte sua
dei gruppi sanguigni) ne ha dimostrato la trasmissibilità (etiologia virale), e
quindi la natura infettiva, trasferendola nella scimmia mediante inoculazione
di materiale prelevato dal midollo spinale di un bambino morto della malattia.
Tra le diverse ipotesi relative alle epidemie il ricercatore
Puntigam ha riferito su esperimenti compiuti a Lucerna, i quali hanno
dimostrato che la sistematica distruzione delle mosche col DDT non ha diminuito
i casi di malattia. Una epidemia attribuita al latte contaminato dalle mosche è
stata osservata e descritta da Goldstein e Mammone Viets in una Scuola Navale
degli Stati Uniti.
Altre epidemie, verificatesi in Svezia
nelle città di Katrinenolm e di Halenstadt, nel 1944, furono invece causate
dall’acqua potabile inquinata, e Kling, che ne ha dato notizia, avendo notato
che l’infezione si propagava non solo a valle, ma anche a monte del luogo
inquinato, ha prospettato l’ipotesi che esista qualche essere acquatico in cui
il virus trovi le condizioni appropriate per la vita e la riproduzione.
Tuttavia, i fattori epidemiologici più importanti (secondo la convinzione di
quei tempi) restano però i malati e i portatori, soprattutto questi ultimi,
perché diffondono il contagio passando inosservati.
La poliomielite è senza dubbio una malattia a carattere stagionale. L’acme della curva della morbilità coincide con il periodo più caldo dell’annata. Accade talvolta che l’estate sia precoce (soprattutto nei primi decenni del secolo scorso) o che vi sia un’estate tardiva supplementare: anche in questi casi la morbilità segue fedelmente la curva della temperatura ambientale. Allora si sosteneva che fenomeni tellurici e cosmici, lo stato igrometrico dell’atmosfera, l’abbassamento del livello della falda idrica sotterranea, lo stato di alta conducibilità elettrica dell’aria, concorrono a facilitare l’esplosione delle epidemie. Per i soggetti “a rischio” sono state considerate anche le condizioni sociali: il fatto che, durante una epidemia, alcuni si ammalano ed altri no, fa pensare che abbiano anche importanza alcune cause predisponenti: è difficile, anche durante un’epidemia grave, vedere più di un ammalato in una stessa famiglia, malgrado i continui contatti.
La terminologia più
“appropriata”
I termini poliomielite o poliomielite
anteriore acuta, comunemente impiegati per designare questa malattia, sono
in realtà inesatti e poco precisi: inesatti perché nella grande maggioranza dei
casi la malattia decorre senza alcun interessamento del sistema nervoso;
imprecisi perché essi indicano esclusivamente una lesione della sostanza grigia
del midollo spinale, senza alcun riferimento all’etiologia. Altrettanto
ingiustificata è la denominazione di malattia
di Heine-Medin poiché Jakob von Heine nel 1838 descrisse solamente la forma
paralitica, evidenziando in particolare il quadro dell’atrofia muscolare e
delle conseguenti deformità e d’altra parte lo stesso Medin che, basandosi
sullo studio delle epidemie del 1887 e del 1895, distinse, accanto alla classica
forma spinale, le forme bulbare, polineuritica e atassica, era ben lontano dal
sospettare l’esistenza e la preponderante frequenza delle forme lievi, senza
alcuna compromissione neurologica. Molto più esatto è parlare di malattia da virus poliomielitici,
termine che, sostituendo il concetto etiologico a quello anatomopatologico e
clinico, è comprensivo di tutte le varie e multiformi espressioni cliniche con
cui può estrinsecarsi il polimorfo quadro.
Per quanto siano state riscontrate tracce di poliomielite anche
precedenti, i primi casi accertati di paralisi multiple iniziarono a comparire
a macchia di leopardo attorno alla metà del XIX secolo. Molti in Inghilterra
nel 1835, nel 1841 in Louisiana e nel 1844 nell’isola di Sant’Elena, per non
parlare della Scandinavia tra il 1880 e il 1890; nel 1916 migliaia di new
yorkers lasciarono la città per evitare il contagio. Ma anche in Danimarca,
Finlandia e Svizzera nel 1931; Austria, Italia e Ungheria nel 1936, e ancora in
Inghilterra e Germania nel 1947. Nel corso della prima metà del XX secolo le
epidemie di poliovirus iniziarono a terrorizzare molti altri Paesi, in
particolar modo gli Stati Uniti. Migliaia di giovanissimi (ma anche di adulti)
morivano o rimanevano paralizzati e l’estate era sempre una stagione temibile:
nelle zone temperate si registrava il maggior numero di casi (l’età più colpita
era quella infantile, a partire dal secondo anno di vita). Dal 1951 al 1955
erano stati registrati in 54 Paesi diversi, su una popolazione totale di circa
1 miliardo di persone, poco più di 98.000 casi di malattia. Un flagello che, in
una sua punta nel 1952 negli Stati Uniti, si verificarono 21.000 paralisi e
3100 decessi.
Il suo impatto era ogni volta drammatico, specie durante le
epidemie, come quella verificatasi nel nostro Paese, soprattutto in provincia
di Modena alla fine degli anni ’30. Ma il 1954 fu un anno cruciale nella storia
di questa malattia: il Rapporto dell’Oms rileva che le “poussées epidemiche” si vanno facendo più frequenti e più intense.
Nel 1956, a Chicago, i medici denunciarono per un lungo periodo una media di 28
malati al giorno, e due terzi delle vittime non avevano ancora compiuto i sei
anni di vita. Nell’ultimo decennio il pericolo si estese anche all’Asia,
all’Africa e all’America Centrale. Nel 1958 un’epidemia si manifestò anche
nella provincia delle Ande, in Colombia.
Nel mondo, dai 63.199 casi (di
cui 5.039 decessi) del 1951 si passò ai 10.092 casi (di cui 7.301 decessi) del
1952 e agli 85.719 casi (di cui 5.511 decessi) del 1953. La poliomielite si diffuse ovunque con un
crescendo pauroso, imponendosi come un problema sociale tra i più gravi ed
urgenti per il gran numero di invalidi che lasciava dietro di sé.
Un numero considerevole di soggetti sopravviveva, rimanendo però
pesantemente menomati e mettendo, di conseguenza, a dura prova le capacità di
assistenza sia delle famiglie sia delle istituzioni medico-sanitarie. Ma ancor
peggio nella maggior parte dei casi erano bambini, al punto che presto si
iniziò a parlare di paralisi infantile.
Chiunque abbia oggi più di cinquant’anni ricorderà molti giovani indossare
tutori metallici per gli arti inferiori, quando non addirittura completamente
immobilizzati in polmoni d’acciaio per consentire loro di respirare. In Europa
una delle maggiori epidemie di polio (oltre a quella verificatasi in Svezia tra
gli anni ’30 e ’40, con 1.031 casi, in parte mortali) fu quella scoppiata a
Copenaghen nel 1952, mentre in America si verificarono 57.000 casi (nel 1921, a
39 anni, ne è stato colpito, ad ambedue gli arti, anche il presidente Usa,
Franklin Delano Roosevelt) e nel resto del mondo la situazione non era meno
preoccupante.
Nell’ospedale di Blegdam
(Copenaghen) venivano ricoverati fino a 50 bambini al giorno, parte dei
quali avevano i polmoni intasati e quindi bisognosi di essere aiutati nella
respirazione. Poiché non c’erano sufficienti polmoni d’acciaio o panciotti
pneumatici, furono “reclutati” tutti gli anestesisti disponibili e, gli
studenti in Medicina di Copenaghen, si offrirono volontariamente per comprimere
a mano i palloni respiratori. Mentre con i vecchi respiratori erano morti 26
pazienti su 30, con questo sistema ne sopravvissero 200 su 318, e 175 riacquistarono sufficiente capacità
respiratoria. Questo capovolgimento della situazione fece scalpore nel campo
medico. I medici di tutto il mondo si resero conto di avere una nuova risorsa
nella ventilazione polmonare artificiale ad opera degli anestesisti.
Molti i casi colpiti
dal virus venivano ricoverati e
In parte “salvati”
grazie al noto “polmone d’acciaio”
Intanto…
Nel tentativo di combattere questa
calamità le ricerche procedevano in tutto il mondo… Nel 1908 alcuni scienziati
avevano dimostrato che la poliomielite
era provocata da un virus che colpisce il sistema nervoso, per quanto, di lì a
poco, lo stesso virus fosse stato isolato anche in altri tessuti. Mentre altre
patologie virali andavano scomparendo (o si stavano stabilizzando), la marcia
della poliomielite sembrava
inarrestabile. Nel 1910 fu riconosciuta come la più grave tra le urgenze che
minacciavano la salute pubblica e, nel 1916, il tasso di incidenza si era già
quadruplicato: la città di New York contava ben 9000 casi, in 2343 dei quali i
soggetti colpiti non erano sopravvissuti.
Proprio in questo periodo moltissimi bambini in tutto il mondo erano
stati colpiti da una forma di poliomielite non paralizzante, e si erano
rivelati in grado di produrre degli anticorpi che li avevano messi al riparo
dagli effetti più pericolosi della patologia. In seguito, quando i Paesi più
progrediti migliorarono sensibilmente le loro condizioni igienico-sanitarie, i
bambini di queste stesse zone non furono più esposti al rischio di contagio, ma
al contempo non produssero più anticorpi reagenti contro le varianti di quel
virus. E fu così che tali bambini diventarono pertanto un facile bersaglio per
la versione paralizzante del poliovirus.
I virologi non avevano dubbi che il vaccino fosse l’unica ed
effettiva speranza. Tuttavia, i primi due tentativi realizzati nel 1934 e nel
1935 fallirono clamorosamente (con molti decessi) quando due studiosi
americani, M. Brodie e J. Kolmer,
annunciarono la scoperta di un vaccino efficace contro la poliomielite, e la conseguente sospensione di qualsiasi ricerca
ufficiale sul vaccino antipolio, nei segreti dei laboratori le ricerche
continuavano… Il solo aspetto positivo della vicenda consisteva nella presa di
coscienza della complessità del problema e della conseguente necessità di una
ricerca più approfondita. A metà degli anni ’30 del Novecento Salk (ancora
studente) aveva sentito parlare della tesi largamente condivisa secondo la cui
l’immunizzazione dalle patologie virali richiederebbe vaccini ottenuti da virus
attenuati, ma ancora attivi. Sabin, invece, non diversamente da Pasteur,
riteneva che il miglior modo per garantire l’immunizzazione consistesse nel
provocare una leggera infezione utilizzando un virus attivo, per quanto
chimicamente o biologicamente attenuato.
Nel 1939 fu proprio lo stesso Sabin a
dimostrare che il contagio avveniva attraverso la bocca e l’apparato digerente:
contrariamente a quanto si credeva sino ad allora non si trattava di un “virus
respiratorio”, ma di un “virus enterico”; scoperta questa, che in parte lo
compensò del grave passo falso commesso insieme al suo collega Peter Olitsky (con il quale in seguito approdò al
Rockefeller Institute for Medical Research) nel 1935 quando dichiarò che gli
esperimenti da loro condotti avevano inequivocabilmente dimostrato che il virus
potesse crescere solamente in tessuti nervosi ancora vitali. In questo stesso
anno entrò nello staff del Rockfeller Institute for Medical Research; quattro
anni dopo si trasferì all’università di Cincinnati (diventando professore
emerito nel 1971), e per tutti gli Anni 30 continuò le sue ricerche proprio a Cincinnati,
creando nel locale “Ospedale dei Fanciulli” la sua prima ed efficiente base
operativa di ricerca.
Il
prof. Albert Sabin nel suo laboratorio a Cincinnati
Nel 1935, altri due ricercatori, Maurice
Brodie e John Kollmer misero a punto un vaccino e furono vaccinati 17.000
bambini; ma 12 contrassero la polio, 6 morirono. Nel 1937 a Toronto, Edwin
Schultz utilizzarono, invece, un vaccino come spray nasale su 5.000 bambini:
molti persero per sempre l’olfatto. Tutto ciò indusse a pensare che un vaccino
efficace dovesse essere realizzato in modo tale da poter essere assunto per via
orale, una procedura sicuramente più semplice e conveniente rispetto alla
somministrazione del virus disattivato che invece richiedeva l’iniezione. Nella
seconda metà degli anni ’40 era già pronto il primo vaccino antipoliomielitico
animale. La dottoressa Morgan, una studiosa statunitense, lo aveva preparato
con frammenti di cervello di scimmie malate trattato con formalina, una
sostanza che pregiudica la sopravvivenza del virus. Era un altro passo avanti,
ma non ancora decisivo tale da far pensare ad esperimenti sull’uomo, e questo
perché l’immunità assicurata da quella vaccinazione proteggeva solo contro un
tipo di virus.
Ma esistono diverse decine di poliovirus
che, dopo numerosi studi, le particelle sono state accorpate in tre grandi
gruppi: il I Gruppo fu chiamato Brunhilde,
dal nome dello scimpanzé nel quale era stata scoperta la prima particella; il
II Gruppo Lansing, dal nome della località dov’era stato individuato il
primo virus di questo raggruppamento; il III Gruppo Leon, dal nome di un paziente. Sotto ciascun Gruppo erano poi
catalogati tanti altri virus, raccolti in quattro diversi ceppi. In seguito a
questi lavori si riuscì a vaccinare gli scimpanzé, che rappresentavano un
modello più raffinato e affidabile delle scimmie, perché in essi la malattia
decorreva come nell’uomo. In questo caso nella preparazione dei vaccini erano
stati impiegati virus innocui e resi inoffensivi artificialmente, in grado di
stimolare la produzione di anticorpi capaci di aggredire anche quelli che
causavano la poliomielite. I
risultati furono lusinghieri, tanto da “osare” la prova sull’uomo.
In laboratorio Landsteiner e Popper riuscirono ad inoculare nella
scimmia il virus responsabile e a studiare la reazione di neutralizzazione,
dimostrando che lo stesso era altamente patogeno anche per le cellule renali
(della scimmia) e quindi non è esclusivamente neurotropo. Utilizzando questo
modello sperimentale, nel 1948 il professor John Franklin Enders della Harvard
University School, con i suoi collaboratori Thomas Uckle Weller e Frederick
Chapman Robbins riuscì a coltivare il virus nei tessuti cutaneo e muscolare,
rovesciando le conclusioni cui erano giunti Sabin e Olitsky nel 1935. In questo
modo si rese disponibile una più vasta scorta di virus sia per la ricerca sia
per la preparazione dei vaccini; e in seguito, i ricercatori scoprirono anche
che quando il virus veniva coltivato in queste condizioni, perdeva la sua
virulenza letale, e pertanto era già utilizzabile per produrre i vaccini.
Si trattò di una scoperta fondamentale per la quale i tre ricercatori nel 1954 furono insigniti del premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia. Nonostante l’enormità del problema e il sollievo che pervase l’umanità tutta quando finalmente si riuscì a produrre un vaccino efficace, questo fu l’unico Nobel assegnato nell’ambito della ricerca sul poliovirus. Salk fu uno dei primi a riconoscere l’importanza della scoperta di Enders, tanto da aggiornare immediatamente le procedure adottate nel suo laboratorio per trarne tutti i vantaggi possibili. Sabin, che in virologia senza dubbio poteva contare su una esperienza più vasta rispetto a quella di Salk, e che non a caso, aveva già scoperto i vaccini contro la dengue e l’encefalite giapponese, nel 1953 iniziò a dedicarsi alle specie virali meno virulente.
Il “momento” di Salk
Tra il 1952 e il 1953 da parte di Salk e collaboratori era già
disponibile un vaccino; al contrario, quello di Sabin (e di pochi altri) necessitava
ancora di una considerevole messa a punto. Furono vaccinate con un vaccino
preparato con virus non patogeno sei persone, mentre altre 20 ricevettero un
vaccino a base di virus attenuato. I risultati furono incoraggianti, anche se
non si poteva ancora tentare una vaccinazione di massa. Entrambi i vaccini
offrivano una protezione limitata, giacché contenevano particelle virali di un
solo tipo e pertanto stimolavano la produzione di anticorpi capaci di
inattivare solo quel particolare virus.
Se malauguratamente la persona fosse stata infettata da altri tipi
di poliovirus, la sua protezione si
sarebbe rivelata del tutto inadeguata. Il suo sistema immunitario non avrebbe
riconosciuto e attaccato il virus, libero dunque di agire indisturbato.
Inoltre, la copertura assicurata dal vaccino durava solo pochi mesi e questo
non poteva essere considerato neanche un obiettivo minimo. Si chiedeva molto di
più a una vaccinazione di massa: un vaccino in grado di garantire una
protezione totale e attiva per un periodo più lungo. Per questo bisognava
attendere ancora.
Fu particolarmente in questa atmosfera
di ricerca e realizzazione vaccinica che Jonas Edward Salk si mise in luce. Era
nato nel Bronx di New York il 28 ottobre 1914 da genitori russi (il padre,
ebreo, era sarto) da poco immigrati negli Stati Uniti. Aveva cominciato a
studiare Belle Arti; ma poi si era appassionato alla Medicina, conseguendo la
laurea nel 1939 anche lui alla New York University. (L’anno in cui Sabin si
laureava, Salk frequentava ancora le Scuole superiori). Il dottor Salk cominciò
ad interessarsi di virologia e di immunologia già quando era all’ultimo anno di
Medicina, e divenne presto famoso per aver realizzato a Pittsburg, nel 1947
(dieci anni dopo è diventato direttore del Salk
Institute for Biological Studies di
St. Diego in California), un vaccino antinfluenzale.
In questa stessa sede universitaria mise a punto, utilizzando virus
uccisi con formolo, tre vaccini contro i tipi I, II e III del virus poliomielitico. Dopo
averlo sperimentato con successo nelle scimmie, Salk sapeva che era giunto il
momento di provarlo sull’uomo; ma ben conosceva i rischi cui andava incontro.
Pensò di aggirare l’ostacolo provando il suo vaccino su bambini che avevano
superato la malattia, e nel cui sangue esistevano quindi anticorpi contro il
virus, anticorpi che si sarebbero verosimilmente opposti ad un’eventuale
reazione violenta indotta dal vaccino.
Il prof. Jonas Salk
Secondo l’etica medica del tempo, per gli esperimenti clinici di un
farmaco o di un vaccino era consentito utilizzare soggetti subnormali. Non
sorprende quindi che, ottenuto un milione di dollari dalla NFIP (National
Foundation for Infantile Paralysis), Salk si recasse in un’Istituzione di
Leetsdale in Pennsylvania, dove (con il consenso dei genitori e delle autorità
scolastiche) condusse le sue esperienze su di un gruppo di bambini menomati.
Prima di praticare loro la vaccinazione, determinò il tasso di anticorpi
antipolio già presenti nel loro siero per questo nel 1951 la NFIP pagò 14,5
milioni di dollari per testare le gamma globuline per prevenire la polio),
quindi somministrò due dosi di vaccino (la seconda, di richiamo, cinque
settimane dopo la prima), e attese ansioso i risultati. Ebbe ragione, secondo
le previsioni, perché in tutti i bambini vaccinati si verificò un netto aumento
degli anticorpi circolanti, e questo stava ad indicare una maggior resistenza
verso una possibile infezione.
Estese allora le indagini alla Scuola
Statale per Ritardati Mentali di Polk,
in Pennsylvania, e anche in questi casi il vaccino “favorì” un aumento della
produzione degli anticorpi anti-poliovirus.
Ma ciò che più entusiasmò Salk fu che nessuno dei bambini mentalmente o
fisicamente handicappati e trattati con il suo vaccino sviluppò la malattia o
qualche sintomo della stessa. Tirò un sospiro di sollievo: “Quando si inoculano a dei bambini virus
della poliomielite - dichiarò - non
si dorme per due o tre anni”. Questi risultati dimostravano che il
preparato a base di virus uccisi non risulta infettante. Salk ne era
intimamente certo perché oltre che su 500 bambini e adulti di un sobborgo di
Pittsburg, l’aveva (pare) provato anche su se stesso, sulla moglie e i tre
figli. Ma quei risultati non dimostravano che esso agisse come vaccino, ossia a
protezione contro un possibile “attacco” di virus naturali. Era quindi giunto
il momento di prendere la decisione, se queste indagini dovessero, o meno,
continuare su più larga scala. Così il 26 aprile 1954 la National Foundation
for Infantile Paralysis varò ufficialmente il programma di vaccinazione di
massa per verificare la reale efficacia del vaccino realizzato dal dottor Salk.
Le prime vaccinazioni...
Queste indagini, affidate a T. Francis jr. dell’Università del
Michigan, furono condotte tra l’aprile e il giugno 1954. Vennero vaccinati
422.743 bambini dai 6 ai 9 anni (ciascuno ricevette una dose dei tre vaccini);
altrettanti bambini ricevettero semplicemente un “placebo” per meglio valutare
gli effetti del trattamento, e altri servirono semplicemente come controlli. Le
Case farmaceutiche avevano continuato a produrre il vaccino nella speranza di
parecchi milioni di dollari per accaparrarsi le prime pagine dei giornali e i
principali spot televisivi in vista della grande giornata: il 12 aprile 1955,
decimo anniversario della morte di F.D. Roosevelt, il “Rapporto Francis” diede
l’annuncio dell’inizio della vaccinazione su larga scala, che avrebbe detto la
parola definitiva sul vaccino antipolio.
Fu un giorno memorabile. La notizia che il vaccino risultasse efficace
e sicuro percorse il mondo intero; i timori di milioni di genitori scomparvero
sotto l’incessante tam-tam dei mass media che annunciavano la clamorosa
“scoperta” del vaccino antipolio, la cui dose costava solo due cents! Da tutto
il mondo arrivarono richieste di grosse partite, e il presidente Drwigt
Eisenhower proclamò Salk “benefattore dell’umanità”. Ogni cittadino americano
si sentiva direttamente “protagonista” della vittoria, proprio perché vi aveva
contribuito personalmente sin dagli anni bui della grande crisi economica
americana, fiducioso che la March of
Dimes sarebbe servita ad aiutare le vittime della paralisi, e in ultimo a
realizzare il vaccino. All’annuncio dato dai mass media gli americani si
ritrovarono a vivere gli stessi esaltanti momenti che li avevano uniti nei
giorni della vittoria delle due guerre mondiali: dall’Atlantico al Pacifico le
campane di tutte le chiese dell’Unione, le sirene delle grandi fabbriche, i
clacson di milioni di veicoli si unirono festosamente alla grande gioia comune.
March of Dimes (La marcia
delle monetine)
Gli “effetti” della
poliomielite
Nel 1921, un promettente politico di nome Franklin Delano Roosevelt
all’età di trentanove anni aveva contratto il virus della poliomielite. La sua
coraggiosa battaglia contro il virus, e soprattutto la sua tenacia nel portare
avanti una sensazionale carriera politica, nonostante la malattia lo avesse
paralizzato agli arti inferiori, meritarono tutta l’ammirazione di cui furono
oggetto, tant’è che le sue sofferenze calamitarono l’attenzione del futuro
presidente su questa patologia. Nel 1926, a Warm Spring, in Georgia, aveva
fondato un centro per la cura della poliomielite e per un certo periodo di
tempo collaborato direttamente alla sua attivazione. Nel 1928 aveva deciso di
intraprendere la strada della politica e il suo primo impegno è consistito nel
procurare fondi per finanziare enti particolarmente costosi, tra i quali il
sostegno al progetto che si proponeva di contribuire alla spese sanitarie delle
vittime del the Crippler [lo storpiatore] come veniva spesso chiamato il virus,
e nella promozione della ricerca e la prevenzione in tutto il Paese.
Roosevelt Istituì la National Foundation for Infantile Paralysis (NFIP),
concepita per coordinare e sostenere economicamente tutte le iniziative
antipolio, modello anche per altre associazioni mediche di volontari come
l’American Cancer Society e l’American Diabetes Association. La NFPI finanziò e
sostenne la campagna nota come la “March
of Dimes”, ovvero la Marcia delle monetine (il dime è la moneta da 10 cents
di dollaro, ndr), e il 20 gennaio di ogni anno (compleanno di Roosevelt) ogni
cittadino americano era invitato a versare il suo dime per contribuire attivamente alla lotta contro la polio.
Attraverso varie manifestazioni propagandistiche di star del cinema e di
numerosi testimonial e con la donazione di altri più consistenti contributi,
furono raccolti milioni di dollari (2.800.000 dimes nel 1938 e 30 milioni di
dollari nel 1949). La NFIP poté così iniziare una serie di ricerche per un
vaccino più efficace e sicuro contro questo morbo e, a quest’ultimo scopo, nel
1949 fu varato uno studio multicentrico in varie Università statunitensi
stanziando la notevole somma di 1.370.000 dollari e mettendo a disposizione dei
laboratori 30 mila scimmie.
Una doccia fredda
Dal 1950 la fondazione stabilì che era giunto il momento di puntare
sul vaccino. Ma quale? Nessuno dei due schieramenti era disposto a riconoscere
i meriti dell’avversario. Ed entrambi i fronti si sentivano oggetto di attacchi
ingiustificati. Sabin in seguito si
lamentò del fatto che in più occasioni Salk “assunse atteggiamenti che escludevano di fatto la possibilità di
imbastire un rapporto cordiale”. [Citato
in M. Cimons, “Polio’s Nearly Extinct, but Sabin-Salk’s Feud Lives On”, Los Angeles
Times News Services, in Hackensack Record, 13 marzo 1983, p. A11.].
Il presidente degli
U.S.A. Franklin D. Roosevelt,
ha contratto la
poliomielite a 39 anni
Al di là degli scontri, dannosi per entrambe le parti, anche le
sperimentazioni non procedevano nel migliore dei modi possibili: c’erano
profondi disaccordi su chi avrebbe dovuto esercitare i controlli, e
sussistevano non pochi problemi nel passare da una produzione di laboratorio a
una scala industriale. Nel marzo 1954 i test furono proseguiti presso i
National Institutes of Health su quantità decisamente maggiori, e il Federal
Bureau of Biologists dette il via alla distribuzione dei dieci milioni di dosi
di vaccino agli ospedali, alle scuole, alle comunità, con le quali furono
vaccinati poco meno di due milioni di bambini. La prima grande tappa della
vaccinazione antipoliomielitica (come ho già ricordato) risale al 12 aprile
1955, quando venne annunciato al mondo che la lotta contro la poliomielite era
potenzialmente vinta con la messa a punto e la sperimentazione del vaccino Salk
mediante virus uccisi, avendo vaccinato 5.394.000 persone. In realtà quel
giorno non costituì la conclusione, ma l’inizio di un intenso periodo di
ricerche che condussero all’impiego e alla diffusione su larga scala di un
vaccino costituito da virus attenuati (vaccino Sabin).
Ma ben presto arrivò la delusione: si scoprì che cinque delle prime
sei partite provocarono casi di infezione virali tra i primati sui quali vennero sperimentate. Infatti, appena due
settimane dopo il grande giorno, cominciarono a giungere dalla California e
dall'Idaho le prime notizie allarmanti: alcuni bambini erano stati colpiti
dalla poliomielite (“da attribuire
verosimilmente al vaccino”). In breve le vittime divennero 260 di cui 11
mortali. L’America cadde nello sgomento: chi aveva fatto vaccinare i propri
figli era nella disperazione. Le Autorità sanitarie sospesero le vendite del
vaccino a tempo indefinito. Le indagini misero subito alla luce un fatto
sconcertante: i vaccini di alcuni lotti allestiti nei Laboratori Cutter non
erano stati inattivati nel modo dovuto!
Le vaccinazioni furono allora riprese con materiale più
accuratamente controllato, senza che si verificassero più incidenti tra milioni
di bambini trattati nelle varie parti del mondo. Ma ormai il vaccino Salk aveva
ugualmente subìto una incresciosa caduta di immagine; inoltre, nonostante la
precipitosa riduzione dei casi di malattia che cominciava a registrarsi in
tutto il mondo tra i bambini vaccinati, il metodo Salk non mostrava di dare una
sicura e totale protezione.
Ma le cifre peggioravano di anno in anno: passando dai 35.000 casi
di infezione riscontrati nei soli Usa nel 1946 fino ad arrivare
all’incontenibile epidemia del 1952 che ne provocò circa 58.000, tra i quali si
contavano 3000 decessi e 21.000 soggetti rimasti paralizzati, gettando nel più
profondo sgomento l’opinione pubblica. Fu così che la National Foundation
decise di avviare una sperimentazione su vasta scala, su soggetti umani. Questo
determinò una situazione particolarmente delicata perché si rendeva necessario
un rapporto di stretta collaborazione con i medici praticanti (fatto che si
rivelò non del tutto scontato) soprattutto quando il progetto di tale
sperimentazione venne annunciato in occasione del congresso che si tenne presso
il Waldford-Astoria Hotel di New York nel febbraio 1953.
Nel giugno dello stesso anno si tenne l’annuale congresso dell’American Medical Association con 38.500 intervenuti tra relatori e ospiti. E
Sabin, che presiedeva i lavori, disse : “Dal
momento che pare circolino delle voci per cui si sarebbe sul punto di disporre
di un vaccino affidabile, o che comunque tale possibilità sia dietro l’angolo,
credo che il miglior modo di dare inizio a questo congresso sia dichiarare che
non disponiamo ancora di tale vaccino, e dunque possiamo solo chiederci cosa ci
attenda dietro l’angolo “. [Citato in J. Smith,
Patenting the Sun. Polio and the Salk Vaccine, Morrow, New York 1990, p.
193].
Le sperimentazioni iniziarono nella primavera del 1954. A un
importante congresso che ebbe luogo a Roma nel settembre successivo si registrò una partecipazione
molto più scarsa rispetto alle aspettative. Aaron Klein, che nel 1972 dedicò un
saggio a questa disputa, scrisse che in quella circostanza Sabin, Salk e altri
relatori a turno presero la parola, “ciascuno
difendendo le proprie posizioni, senza lasciarsi sfuggire l’occasione per
attaccare le tesi rivali “. [A.E. Klein, op.
Cit., pp. 105-106].
Comunque i test iniziarono con un complesso programma di
sperimentazione in doppio cieco, ma si verificarono le prime conseguenze:
alcune partite di vaccino provenienti da una delle ditte produttrici
provocarono più di 200 casi accertati di infezione, tutti in qualche modo
riconducibili alle vaccinazioni; circa 150 pazienti rimasero paralizzati,
mentre 11 non riuscirono a sopravvivere. Ma dove stava la causa? Nel prodotto
dei Cutter Laboratori, o addirittura nel vaccino in sé? Furono ritirate le dosi
inutilizzate e, a parte accuse e contraccuse, il gruppo direttivo del Rockefeller Institute riuscì a
“ricomporre” la situazione e restituire credibilità al progetto: furono
vaccinati 400.000 bambini, a 210.000 fu somministrato un placebo, e 1.180.000
vennero tenuti sotto osservazione. Questo progetto rappresenta la più grande
sperimentazione in doppio cieco mai realizzata nella storia della medicina.
Ma si poteva fare di più? Il vaccino, quasi pronto, cui
stava lavorando Albert Sabin e del quale filtravano continuamente notizie
avrebbe dato risultati migliori? Al Children’s Hospital Research Foundation
dell’università di Cincinnati, Sabin
aveva finalizzato le ricerche alla messa a punto di una sospensione di virus
attenuati. Fin dal 1951 Sabin aveva trasformato il suo laboratorio in una
specie di zoo privato (la sua prima moglie sembra che lo avesse rimproverato
aspramente di trovare più seducenti i virus di lei, e raccontava che il marito
passava metà del suo tempo in viaggio e l’altra metà a preparare relazioni
scientifiche: morì suicida…), ricco di 9000 scimmie e 140 scimpanzé sui quali
lo studioso sperimentava la virulenza dei nuovi ceppi che si andavano formando.
Alla fine del 1953 era riuscito a individuarne 2700 tipi diversi,
tra i quali 12 sino ad allora sconosciuti. Con questi preparò un primo vaccino
che sperimentò sugli scimpanzé. Il vaccino funzionava. Bisognava ora
sperimentarlo sull’uomo. Ma su chi? Lo fece su se stesso, sulle figlie, su due
collaboratori (“Tre emarginati - avrebbe poi detto in una intervista -: il sudamericano, il negro, l’ebreo ”). Il vaccino doveva
essere distribuito su larga scala, anche a chi era già stato vaccinato con il
Salk. Nel 1952 furono vaccinate con “virus non patogeno” 6 persone, mentre
altre 20 ricevettero un vaccino a base di “virus vivo attenuato”. I risultati,
anche se incoraggianti, offrivano una protezione limitata.
Sabin aveva scoperto, come sappiamo, che è nell’apparato digerente
il terreno nel quale si sviluppa il male, ed era lì che bisognava colpirlo. Ma
quando ebbe raggiunto la valida prova della “giustezza” delle sue osservazioni,
e quando usando delle colture ai reni di scimmia riuscì a produrre il suo
vaccino, che aveva tutte le qualità richieste per affrontare la dura battaglia,
scoppiò una polemica che divise in due il mondo della scienza. L’opinione
pubblica era ora percorsa da una strana inquietudine, le Autorità sanitarie
statunitensi si preoccuparono a loro volta e il direttore della Fondazione
Thomas Rivers, spiegò: “Il vaccino Salk è
sicuro, efficace e disponibile già da ora, mentre il Sabin è ancora allo stadio
sperimentale e come ha sottolineato lo stesso Sabin non sappiamo quando potrà
essere impiegato sull’uomo. Sarebbe tragico se i genitori, nella prospettiva di
un vaccino futuro, ritardassero di ricorrere a quello attualmente disponibile ”.
Sabin continuò a sostenere che il vaccino Salk fosse effettivamente
nocivo spiegando che nella fase in cui si garantiva l’immunità, il corpo non
avrebbe avuto la possibilità di produrre anticorpi in seguito a una naturale
esposizione al virus e questo alla lunga avrebbe sortito veri e propri
disastri. A partire dal 1956 anch’egli disponeva di un vaccino che aveva
sperimentato sia sui primati che su più di cento volontari, e i risultati
dimostrarono essere esattamente quelli auspicati: una significativa crescita
della produzione di anticorpi reagenti contro il poliovirus e nessuna traccia di infezioni indesiderate. Un
ulteriore riscontro Sabin lo ebbe dai risultati positivi emersi dalla
sperimentazione effettuata nel 1958 in un Congo Belga pesantemente colpito dal
virus, e inoltre con un’ulteriore verifica su larga scala dell’efficacia del
suo vaccino condotta poco tempo dopo in Unione Sovietica. Il fatto che i
sovietici avessero deciso di utilizzare un vaccino prodotto nell’odiato
Occidente è un’eloquente indicazione del loro livello di disperazione …, ma
probabilmente anche di credibilità nei confronti di un prodotto “offerto”
spontaneamente…
Ma facciamo un passo indietro. Nel 1953 Sabin presentò alla Commissione
per l’Immunizzazione, la National
Foundation for Infantile Paralysis (NFIP) i risultati delle esperienze
condotte inizialmente su 10 mila scimmie e 160 scimpanzé, e quindi su 242
persone, compresi se stesso e i propri famigliari. Successivamente vennero
vaccinati, a Singapore, circa 200 mila bambini. Alla fine del 1955, l’anno
dell’incidente con il vaccino Salk, il prof. Sabin aveva già preparato più di
20 litri di vaccino da somministrare in poche gocce su di una zolletta di
zucchero; più di due milioni di dosi. La vaccinazione si poteva eseguire
somministrando i tre tipi di virus a distanza di un mese l’uno dall’altro,
oppure contemporaneamente (vaccino cosiddetto trivalente) secondo la prassi
adottata in seguito. Alla luce di questi esperimenti il vaccino Sabin sembrava
offrire una maggiore sicurezza ed efficacia rispetto al vaccino Salk; inoltre
poteva essere somministrato in una sola dose e per via orale, vantaggio
palesemente non di poco conto per i bambini (il vaccino Salk, invece, doveva essere
dato per iniezione, e le tre somministrazioni implicavano problemi pratici e
logistici non sempre facili da risolvere).
Tutto lasciava quindi intendere che il vaccino di Sabin prendesse
il sopravvento su quello di Salk; ma purtroppo, anche in Medicina gli interessi
commerciali a volte prendono il posto di quelli etici, scientifici ed umani. “Avevamo condotto lunghi studi - spiegò
Sabin -, ma nessuno voleva produrlo.
Anche quando gli Stati Uniti lo avevano approvato, avevano dato il permesso di
somministrarlo, ma non riuscivamo a trovare i produttori che lo fabbricassero…”
E questo perché le industrie farmaceutiche avevano sino ad allora impegnato
molto denaro per la produzione del vaccino Salk e, far marcia indietro, sarebbe
stato certamente antieconomico…
L’inevitabile “esodo” del
vaccino Sabin
Per una serie di ragioni (anche di campanilismo!) Sabin non fu
creduto né seguito, almeno in patria, e così il suo vaccino trionfò nei Paesi
dell’Est (oltre la “cortina di ferro” allora esistente tra Oriente e
Occidente), dell’Asia e dell’Europa: dal 1959 al 1961 furono vaccinati con il
vaccino Sabin milioni di bambini (77 milioni solo in URSS). Quelle prime
vaccinazioni dettero risultati lusinghieri (a parte il riflesso medico e
umanitario di questi risultati, quei Paesi furono avvantaggiati anche dal punto
di vista economico, perché del vaccino Sabin occorrevano quantitativi di molto
inferiori al vaccino Salk), e ciò contribuì ad alimentare negli Stati Uniti la
polemica già in corso tra quanti consigliavano di passare al vaccino Sabin e
chi sosteneva, invece, il vaccino Salk, anche se non era riuscito ad eradicare
la malattia. Poiché in questi Paesi non si verificò più alcun caso di poliomielite, furono prodotti e immessi
sul mercato notevoli quantitativi del vaccino Sabin orale monovalente contro il poliovirus tipo I, e poco dopo anche il vaccino orale
tipo II (OPV) e il vaccino orale
trivalente tipo III (TOPV) valido
contro tutti e tre i tipi di poliovirus.
Il virus della polio
non ha confini...
La Germania Est e Russia, la Polonia e la Cecoslovacchia furono i
primi Paesi al mondo a non avere più “nessun caso” nelle statistiche, grazie
all’antipolio Sabin. Nel giugno 1959 si tenne a Washington un congresso
internazionale, sotto gli auspici dell’Ufficio Sanitario Panamericano e della
Fondazione Sister Keney, con la partecipazione di 70 virologi di 17 Paesi.
Furono tutti d’accordo nel dichiarare che i “virus vivi” della polio non
soltanto sono innocui, ma atti a dare l’immunità. Il mese dopo (luglio) la rivista
medica “The New England Journal of Medicine” scriveva: “I più autorevoli virologi ed epidemiologi concordano che soltanto la
somministrazione, attraverso il tubo digerente, di un virus vivo,
opportunamente attenuato, può dare ragionevole certezza di una sicura e
durevole immunità contro la poliomielite…”. Nonostante le positive conferme
della scienza medica ufficiale le autorità statunitensi indagarono oltre…
Nell’agosto del 1959 l’Oms inviò in URSS la virologa Dorothy Hortsmann della Yale Poliomyelitis Study Unit per
valutare obiettivamente l’efficacia del vaccino Sabin nella prevenzione della poliomielite. Si rese subito conto della
situazione accertandosi della assoluta validità del vaccino, e dopo soli tre
mesi tornò negli Stati Uniti per confermare che il vaccino era “sicuro ed
efficace”.
Anche Sabin tornò negli Stati Uniti, dove l’attendevano altri due
anni di prove e controprove, anche se il 24 agosto 1960 il responsabile medico
dell’esercito statunitense si espresse affinché fosse concessa la distribuzione
del vaccino indebolito di Sabin per uso
domestico. A Cincinnati immunizzò 180 mila bambini, e per la prima volta in
quella città non si verificò alcun caso di paralisi infantile; e nell’agosto
del 1961 una grande Ditta (Sclavo) fu autorizzata a produrre e ad immettere in
commercio notevoli quantitativi del vaccino Sabin orale monovalente contro
il poliovirus tipo I.
Tre mesi dopo fu autorizzata a produrre del vaccino orale tipo II (OPV) e nel marzo del 1962 anche la
produzione del vaccino orale trivalente (TOPV) valido contro tutti e tre i tipi
di poliovirus. Da qui la
raccomandazione dell’American Medical Association: tutte le
vaccinazioni antipolio dovevano essere fatte con i virus attenuati di Sabin.
Nonostante questo, e nonostante i successi ottenuti in Unione Sovietica le
reazioni “poco simpatiche” di Salk non si fecero attendere continuando ad
affermare che quella strada era semplicemente “inutile e sconsiderata”, e che avrebbe di fatto portato a dei casi
di poliomielite provocati dallo stesso vaccino.
Salk arrivò ad accusare Sabin di “aver venduto il suo vaccino ai russi”. Niente di più falso: Sabin, non solo non aveva venduto il suo vaccino ad alcuno, ma rifiutò di brevettare la scoperta, mettendola a disposizione di tutti i bambini del mondo. “Non volevo - disse più volte, in seguito - che il mio contributo al benessere dell’umanità fosse pagato con denaro ”. Ma a parte questa “diatriba”, i primi anni ’60 costituirono il vero banco di prova della vaccinazione Sabin, che si diffuse rapidamente in tutto il mondo per la semplicità del metodo e per l’efficacia immunizzante che si rivelò così elevata da far prospettare la possibilità pratica di raggiungere l’eradicazione completa della malattia.
Fiduciose le
famiglie americane fanno vaccinare i propri figli con il vaccino Salk
Nel 1961 l’American Medical
Association suggerì a tutto il Paese di vaccinare i bambini con virus
attenuati e il 1962 e il 1963 furono gli anni di svolta e della riconoscenza
scientifica dello scienziato polacco. Nel 1960 erano stati vaccinati in molti
Paesi del mondo oltre 100 milioni di bambini con un’efficacia di oltre il 90
per cento. Ma nei 15 anni compresi tra il 1969 e il 1983 negli USA sono stati
identificati ancora 255 casi di polio paralitica.
Con la vaccinazione di massa (poliovirus attenuati del vaccino
orale Sabin) in questo continente la
poliomielite non lasciò più traccia dagli anni ’80: nel periodo 1982-1983 si
sono registrati ancora 15 casi di malattia (contro i 16 mila registrati ogni
anno prima dell’introduzione della vaccinazione). L’ultimo caso di poliomielite
dovuto a un virus “selvaggio” risale al 1980. In Europa nel 1986 sono stati
segnalati 246 casi, 221 nel 1987 e 213 nel 1988. In questo ultimo anno, proprio
grazie alle vaccinazioni di massa, è stato possibile prevenire nel mondo ben
350 mila casi di paralisi. Tra il 1995 e il 1996 circa 400 milioni di bambini
di età inferiore ai cinque anni sono stati immunizzati contro poliovirus, in
gran parte con il vaccino Sabin. Nel 1996 l’Oms poté annunciare, per la prima
volta dopo più di un secolo, che nel mondo si contavano meno di 2200 casi di
poliomielite all’anno.
Risultati confortanti sebbene, per ragioni ancora sconosciute, una
piccola percentuale di coloro ai quali è stato somministrato il vaccino Sabin
continuano a essere infettati. Probabilmente, si tratta di soggetti in qualche
modo geneticamente predisposti… E anche se la grande maggioranza dei vaccinati
stia bene, c’è ancora una minoranza che può essere colpita dal virus, anche
severamente. Tra il 1969 e il 1983, per esempio, i Centers for Disease Control
(CDC) registrarono un totale di 210 casi di poliomielite, 99 dei quali
potrebbero essere stati provocati dal vaccino Sabin. Tuttavia, Sabin si rifiutò
sempre di accettare questa evidenza. “Esistono
– sostenne – altre forme di paralisi del
tutto analoghe a quelle provocate dalla polio”. [Citato in M. Cimons,
“Polio’s Nearly Extinct, but Sabin-Salk’s Feud Lives On”, cit., A11]
Ma quale
era la situazione in Italia?
In Italia sono stati denunciati 6.000 casi nel 1939, anno in cui si
ebbe una grave epidemia. Nel 1950 le denunce furono 2.034, e rispettivamente
2.867, 2.708 e 4.995 nel 1951, 1952 e 1953. Nel settembre 1954 si tenne a Roma
la III Conferenza Internazionale della
Poliomielite, e due furono di particolare interesse: quella del
batteriologo e professore di virologia Jonas Edward Salk (scomparso nel 1995),
che riferì dei suoi “Studi sui vaccini
non infettivi nella poliomielite”; e quella del microbiologo polacco Albert
B. Sabin, direttore del Children’s Hospital Research Foundation dell’università
di Cincinnati, che riferì sui “Virus non
virulenti per l’immunizzazione contro la poliomielite ”.
POLIOMIELITE
PARALITICA IN USA
DAL 1951 AL
1983
PERIODO TIPO DI VACCINO CASI/100ML/AB/ANNO
1951-1955 Nessuno
13.500
1956-1960
Solo vaccino Salk 2.600
1961-1965
Vaccino Salk + Vaccino
Sabin
240
1973-1978
Solo vaccino Sabin 4
1980-1983
Solo vaccino Sabin 4
Sugli studi e sui primi risultati del prof. Salk “Il Policlinico”,
nella rubrica Appunti per il medico pratico del febbraio 1955, scriveva: “Fondamentali sono i risultati ottenuti in
questi ultimi tempi nelle ricerche eseguite allo scopo di preparare dei vaccini
attivi nei riguardi dell’infezione poliomielitica. Numerose sono le modalità
con le quali si cerca di indurre lo sviluppo di una immunità attiva nei
soggetti esposti al contagio. I dati ottenuti da Salk e collaboratori in questi
ultimi tempi sia negli animali che nell’uomo, mediante una sperimentazione
avviata nel 1952 e ripresa su larga scala nel 1954, sono assai incoraggianti;
essi aprono la strada a successivi tentativi di ottenere delle preparazioni di
efficacia ancora maggiore e soprattutto prive di rischi ”.
Il vaccino di Sabin è diverso. Al
riguardo, la stessa rubrica scriveva: “Sono
in corso vari esperimenti per avere delle mutanti di ceppi che possano essere
eventualmente usate per l’allestimento di vaccini a base di virus viventi. Si
tratta di virus vivi, privati dell’azione patogena mediante mutazione adattiva (attenuazione,
n.d.a.) e tuttavia sempre in grado di
indurre nell’organismo umano uno stato di immunità attiva. Il vaccino, inoltre,
è da somministrarsi per via orale ”.
Casi di
poliomielite verificatisi in Italia dal 1954 al 1962
Nord: 9.902 Centro: 6.007 Sud: 14.876
Insulare: 5.880 = Totale:
36.665
Nonostante la disponibilità in Europa e in Italia del vaccino orale
Sabin, dal 1960 al 1962 si verificarono ben 10.213 casi di poliomielite (fino
al 1963 circa 3.000 casi all’anno, con un acme di oltre 8.000 casi nel 1958).
Emblematico il caso di Rosanna Benzi (scomparsa alcuni anni fa a causa di un
tumore), colpita dal virus a 14 anni nel 1962 (la vaccinazione non era ancora obbligatoria…).
“Nel gennaio 1962 - ha raccontato più volte, anche in una sua
autobiografia - avevo portato mio fratello a farsi vaccinare
contro la poliomielite. Lo feci contro il parere dei miei genitori e di mezzo
Morbello (un paesino della provincia di Alessandria, di cui era
originaria, ndr). Erano i primi vaccini che arrivavano lassù e la gente, un po’ ingenua e
molto ignorante, non li vedeva di buon occhio. Mio fratello aveva due anni, e
il fatto che fosse così piccolo aumentava l’apprensione di mia madre. “Guai a te se fai una cosa del genere!”, minacciava. Io non mi feci vaccinare e
nessuno mi prestò troppa attenzione perché ero grande: avevo 14 anni! ”.
Il 16 marzo, Rosanna Benzi accusava
i primi sintomi di paralisi poliomielitica: da quel momento ha vissuto 29 anni
rinchiusa nel polmone d’acciaio in una camera dell’ospedale San Martino di
Genova.
In Italia la vaccinazione antipoliomielitica con virus inattivato
con formaldeide (Salk) fu introdotta
come vaccinazione volontaria nel 1958-59, e purtroppo i casi annui di poliomielite
sono aumentati ulteriormente: da 4.452 nel 1957 a 8.152 nel 1958. Quella di
Sabin fu introdotta solo nel 1963, e obbligatoriamente tre anni più tardi con
la legge n. 51 del 4 febbraio 1966. Questi ritardi costarono all’Italia in
totale quasi 10 mila casi di poliomielite,
che provocarono più di 1.000 decessi e più di 8.000 paralisi.
Casi di
poliomielite denunciati in Italia dal 1960 al 1962
1960: Italia settentrionale: 752 – Centrale: 450 –
Meridionale: 1.680 – Insulare: 673 (per un totale di 3.555 casi)
1961: Italia settentrionale: 1.238 – Centrale: 456 – Meridionale: 1.273 –
Insulare: 448 (per un totale di 3.415 casi)
1962: Italia settentrionale: 420 – Centrale: 336 – Meridionale: 1.646 –
Insulare: 841 (per un totale di 3.243 casi)
A partire dal 1964, anno in cui si è attuata la campagna di
vaccinazione Sabin, si è avuta una netta diminuzione dei casi di malattia, che
si sono ridotti a poche unità: complessivamente dal 1969 al 1979 sono stati
denunziati in Italia 211 casi (di cui 5 letali, nella fascia di età al di sotto
dei due anni). Altra statistica evidenzia che dei 3000-4000 casi annui
verificatisi nel quinquennio 1959-1963 la poliomielite
crolla agli 841 casi del 1964. Poi i casi annui continuano il loro calo: 254
nel 1965, 148 nel 1966, 107 nel 1967, 90 nel 1968, 10 nel 1972, 12 nel 1976, e
solo 3 tra il 1985 e il 1990. Nel 1974 l’Oms vara l’Expanded Program for
Immunization (EPI): in meno di 30 anni la percentuale di bambini vaccinati
passa da meno del 5% all’80%. Il risultato è legato alla coalizione di più
partners: Governi, Onu, Unicef, Agenzie per lo Sviluppo, Banche, associazioni
non governative come la Rockefeller foundation, Medici senza Frontiere e il
Rotary International.
Le “vere” ragioni di quel
ritardo…
Per conoscere le ragioni del “ritardo” nell’adozione del metodo di
profilassi (vaccino Sabin), chi scrive e vi parla, nel 1984 fece una
interpellanza al Ministero della Sanità. Rispose un dirigente di Medicina
Sociale dello stesso dicastero, affermando, tra l’altro, che “… in Italia era stato adottato il vaccino
Salk, composto da virus polio uccisi. In Paesi europei come l’Olanda e la
Svezia, la somministrazione di questo vaccino ha consentito il completo
controllo prima e l’eradicazione della polio, poi. In Italia ciò non è
avvenuto, probabilmente per carenze nell’organizzazione di immunizzazione,
allora volontaria, specie per la conservazione del vaccino Salk e coloro che,
sulla base dei primi risultati dell’impiego del vaccino vivente attenuato (somministrato
per via orale), mettevano in evidenza la maggiore semplicità di attuazione ed
il meccanismo “biologico di introduzione del virus vaccinico ”.
“Da parte dei primi –
proseguiva il funzionario del Ministero – si
metteva in dubbio la sicurezza del vaccino Sabin, nel senso che si temeva che i
ceppi attenuati si virulentassero nell’organismo infantile. Tale dibattito non
era presente solo in Italia e tuttora (anni
’80, n.d.a.) si manifesta anche negli
Stati Uniti, soprattutto dopo aver rilevato la presenza di rarissimi casi (1 su
1 milione di vaccinati) di polio da vaccino. A suo tempo vi sono state
dichiarazioni di responsabili della Sanità, nettamente contrari
all’introduzione del vaccino Sabin. Solo con l’avvento del primo Governo di
centro-sinistra (ministro della
Sanità era Giacomo Mancini, socialista, n.d.a.) si sono superati i non pochi ostacoli di ordine finanziario ed
organizzativo per lanciare una grande campagna per la vaccinazione volontaria ”.
“Se il vaccino Salk fosse stato
somministrato in massa – è la conclusione dell’esponente ministeriale – si sarebbe potuto controllare la malattia;
purtroppo, specie nelle regioni meridionali, non c’è stata a suo tempo una
collaborazione ottimale da parte dei medici ”.
Ma come motivarono le autorità sanitarie di allora la riluttanza a
lasciare il Salk per il Sabin? Così
si espresse l’allora ministro della Sanità Giardina (democristiano, n.d.a.) durante un convegno di pediatria, tenutosi
a Roma: “… parlando oggi dinanzi a un
così eletto consesso di specialisti di un ramo della scienza medica che
riguarda proprio la prima infanzia, la più soggetta al morbo della polio, credo
doveroso ricordare, come unico e diretto responsabile della tutela della
pubblica salute, che la vaccinazione antipolio con vaccino vivo non sarà per
ora autorizzata in Italia. Il Ministero della Sanità non può fare dei bambini
italiani delle cavie da esperimento, come in verità sarebbero, data la fase
tuttora sperimentale del vaccino vivo. Di conseguenza, il vaccino vivo non sarà
per il momento registrato nel nostro Paese e neppure ne sarà autorizzata la
fabbricazione a scopo di esportazione”.
Per contro, in un’intervista all’Europeo, Sabin così raccontava le
prime disavventure del suo vaccino in Italia: “L’incontro con le più alte gerarchie dell’Istituto Superiore di Sanità
avvenne nel 1960. Mi pare ci fosse anche il ministro. Dissi loro che mi sentivo
come Emile Zola, che non potevo risparmiare il mio “J’accuse”. Ricordo di aver
detto queste parole: “Avente nelle vostre mani, voi che state
seduti davanti a me in quelle poltrone, il potere di decidere e non prendete
una decisione e domani sarete chiamati responsabili (…) dei bambini che
moriranno e di tutti quelli che resteranno paralizzati …”Ricordo
che gli alti funzionari si alzarono e se
ne andarono via dalla sala per protesta mentre ancora parlavo. Poi venne un
vostro ministro socialista, mi pare si chiamasse Mancini, che approvò il
vaccino Sabin agli inizi del 1964. Così “sanaste” anche voi quel ritardo ”.
“Insipienza o malafede - così
scrive (e c’è da sottolinearlo) Stefano Cagliano -, si tratta di una vicenda di cui la Sanità italiana dovrà sempre
vergognarsi ”. E le prove ancora “viventi” ci sono!
Il “prezioso”
vaccino antipoliomielitico orale Sabin
L’esplosione della polio
paralitica a Taiwan
A Taiwan (18 milioni di abitanti, 400 mila nascite all’anno, nel
1980) non si erano registrate delle importanti epidemie di poliomielite dal
1975, ma dal 29 maggio al 26 ottobre 1982 sono stati segnalati 1031 casi di
poliomielite paralitica tipo 1. Da notare che prima dell’epidemia, circa l’80%
dei bambini aveva ricevuto almeno 2 dosi di poliovaccino orale trivalente (PVO)
entro il primo anno di vita. In questo Paese la poliomielite è stata registrata
per la prima volta nel 1913, e soggetta a denuncia nel 1955; il vaccino Salk
(IPV) introdotto nel 1958 e il vaccino Sabin (OPV) nel 1963. Da ciò è emerso
che, anche in questo Paese, il più importante fattore di rischio per la
poliomielite era la mancata vaccinazione piuttosto che l’inefficacia del
vaccino…
La poliomielite in Israele
Verso la fine degli anni ’80 un’epidemia di poliomielite paralitica dovuta al tipo selvaggio di poliovirus, che
ha colpito almeno 11 fra bambini e adulti, è stata denunciata in Israele. La
maggior parte dei casi si è verificata a Madera, un sottodistretto a metà
strada tra Tel Aviv e Haifa, dove c’era stata un’ampia campagna di vaccinazione
con vaccino antipoliomielitico inattivato dal 1982. Tali episodi epidemici si
sono pure verificati in comunità immunizzate con il vaccino antipolio orale, a
dispetto della maggiore immunizzazione enterica conferita da questo vaccino, se
comparato a quello inattivato.
La Cina dichiara guerra
alla poliomielite
Dal 1994 in Cina si è iniziata una campagna di vaccinazione contro
la poliomielite su circa 100 milioni
di bambini cinesi con meno di 4 anni. Il numero di casi di poliomielite in
questo Paese nel periodo gennaio-agosto 1993 è stato di 348, contro 877 nello
stesso periodo del 1992. Anche se la poliomielite era presente praticamente in
tutta la Cina, si verificarono più frequentemente casi nelle province nel sud
del Paese. Sui 348 casi citati, il 66% interessava sei province del Sud (Fjian,
Guangdon, Guangxi, Guixhou, Hainan e Jangxi).
L’epidemia di poliomielite
in Albania
In questo Paese si è verificata un’epidemia di poliomielite verso la metà del 1996 (fino al 17 settembre dello
stesso anno, secondo l’Oms, sono stati denunciati 66 casi di paralisi.
L’epidemia è scoppiata malgrado le due giornate di vaccinazione che si sono
svolte l’8 aprile e il 17 maggio nel corso delle quali è stato vaccinato il 97%
dei bambini di meno di 5 anni. L’ultimo caso di poliomielite paralitica
denunciato in Albania risaliva al 1978, il Paese era quindi libero dalla
malattia da molti anni. All’inizio degli anni ’90 le autorità sanitarie
internazionali avevano già avanzato alcune perplessità sul mantenimento
corretto della catena del freddo e quindi su una diminuzione possibile
dell’efficacia vaccinale.
Nel 1998, dopo dieci anni di ininterrotto lavoro i casi di polio
nel mondo sono diminuiti dell’85%. In Asia più della metà dei casi confermati
di polio è notificata da 5 Stati del sub-continente indiano: Afghanistan,
Bangladesh, India, Nepal e Pakistan. Ma è comunque necessario continuare con le
giornate nazionali di vaccinazione. In india 130 milioni di bambini sono stati
vaccinati nel dicembre del 1997 ed ancora nel gennaio 1998. “Sebbene i casi di polio siano diminuiti del
90% - sostiene la dottoressa Anna Maria Patti, del Dipartimento Scienze di
Sanità all’università La Sapienza di Roma - questi
Paesi rimangono reservoirs del virus selvaggio ”. Nel 1999 il governo
statunitense, nonostante la semplicità di somministrazione e degli altri
vantaggi, stabilì che il vaccino Sabin venisse abbandonato e che fosse
rimpiazzato da una serie di iniezioni vecchio stile, utilizzando una versione
avanzata, ovvero più potente, del vaccino Salk. Tuttavia, occorre ricordare che
nella disputa tra Sabin e Salk non c’è in realtà un vero e proprio vincitore;
almeno per quanto concerne gli Stati Uniti, è stata proprio la versione del
vaccino Sabin ad aver reso possibile
quest’ultima apparente vittoria di Salk.
Inoltre, nel corso di tutte le tristi
vicende in cui si articolò la disputa, la reputazione di Sabin non venne mai
meno; e nonostante tutti i commenti negativi (da entrambe le parti), il suo
grave passo falso del 1935 e il fatto che non fu mai insignito del Nobel, nel
particolare ed immane mondo della scienza, la sua fama, sia di politico della
scienza che di ricercatore, rimase inalterata. Dopo che il suo vaccino fu
autorizzato, continuò a svolgere un ruolo decisivo per quanto concerne la
pianificazione dei programmi di vaccinazione su scala mondiale diretti dalla
Pan-American Union e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. E il 29 ottobre
del 2000 la Regione del Pacifico occidentale viene dichiarata libera dalla
polio.
Sabin filantropo
Il prof.
Sabin, per le sue caratteristiche di uomo disinteressato (non amava i
riflettori, anche se era un rotariano),
scienziato e filantropo di enorme rigore morale (aveva un carattere
solitario, intransigente, duro, quasi ascetico), dalla realizzazione del suo
vaccino non ha mai voluto guadagnare un dollaro, rifiutandosi di brevettarlo
per contenere così il prezzo e far sì che potesse giungere a chiunque…
Nonostante questa scelta, visse sempre del suo stipendio,
sostenendo: “Non voglio che il mio contributo al benessere dell’umanità sia pagato
con della moneta… I nostri sforzi - ha poi aggiunto - devono
essere rivolti per debellare le sacche di povertà che si stanno sempre più
allargando. Qui troviamo i bambini più bisognosi di difesa, i piccoli che
nascono da madri spesso sole, prive di ogni possibilità economica, a volte
incapaci di assisterli. Sono bambini di Paesi ricchi che rischiano di morire di
stenti esattamente come succede nei Paesi sottosviluppati”. In seguito
si dedicò a vari importanti studi immunologici, per sconfiggere il cancro e il
morbillo, seguendo la linea maestra che già gli diede la vittoria sulla polio: non
tanto il male, quanto attivare le difese organiche naturali.
Negli anni ’70 si dedicò allo studio delle origini dei tumori e
delle leucemie, affiancandovi un’intensa attività di organizzatore nella
ricerca, specie in Israele. Dei problemi organizzativi era un convinto
assertore. “Ho una proposta che si basa
sull’esperienza dell’America Latina - ebbe a dire in più occasioni -, dove gruppi di volontari sono stati
addestrati per sconfiggere (e ci sono riusciti in poco tempo) la poliomielite.
E per tante altre malattie, basterebbe organizzare gruppi di volontari che
siano in grado di intervenire su cose elementari. Non sono necessari grandi
dottori, ne grandi piani. Un esempio? Venti milioni di quei 150 milioni di
bambini, sono morti per diarrea, una malattia che potrebbe essere curata
somministrando pochi grammi di sale. Una medicina semplicissima e così poco
costosa: basta saperlo e organizzarsi. Il problema non sono i soldi, e ci sono
abbastanza soldi per ora. Il problema è l’organizzazione, che non richiede
grandi strategie. Se in ogni comunità ci fossero almeno due persone in grado di
dare un’assistenza elementare, moltissime morti sarebbero evitate… Basta
saperlo!”
Era in pensione dal 1986. Nella sua
lunga carriera Sabin pubblicò più di 300 lavori scientifici e aveva ricevuto
quaranta lauree “ad honorem” in varie parti del mondo (alcune fonti riferiscono
di ben 78 riconoscimenti), tra le quali la Medaglia Presidenziale Nazionale
della Scienza (il più grande riconoscimento degli Stati Uniti, ndr), la Medaglia
della Libertà, da Reagan; e molti altri premi e riconoscimenti, ma non il
Premio Nobel. Di questa “dimenticanza” della Giuria svedese non si rammaricò
mai molto, e lo disse senza molte perifrasi quando gli venne assegnato, nel
1964, il “Premio Feltrinelli” per la Medicina dell’Accademia dei Lincei di
Roma, una delle più antiche del mondo come lui stesso ricordò in quella
occasione.
Nel 1992 ad Abano Terme ricevette il Premio “Qualità della vita”,
che gli fu assegnato per il suo grande contributo dato proprio alla qualità
della vita di tutto il mondo. In alcune occasioni spiegò: “Sono stato candidato diverse volte, ma evidentemente c’erano altri che
lo meritavano più di me”. E aggiunse: “Non
cercare un premio, perché tu hai una grande ricompensa su questa terra: la
gioia spirituale che soltanto il giusto possiede”. Oggi, sentiamo e
leggiamo di un “Nobel Sabin”. Forse non è proprio un errore, forse è giusto
così. Il premio che Albert Sabin non ha avuto dall’Accademia svedese, lo ha
ugualmente ricevuto per volere di popolo. Un Nobel per acclamazione.
Albert Sabin e la
moglie Heloise
Aveva un forte legame con l’Italia: almeno una volta l’anno veniva nel nostro
Paese, dove per molti anni portò il suo contributo d’aggiornamento per medici
che si teneva a Sangemini. “Perché investire migliaia di miliardi negli
armamenti ed ignorare completamente la miseria, il sottosviluppo,
l’impossibilità di sopravvivere di milioni di bambini asiatici od africani?”
Solo quando pronunciava questa frase (e lo faceva spesso, anche fuori dagli
ambiti congressuali) il compìto gentiluomo perdeva il suo self-control, ma dopo
qualche minuto il suo sguardo tornava ad essere sereno, in armonia col suo
ruolo di “maestro”. Fu ospite più volte di riunioni scientifiche di altissimo livello
e di una città (Torino) che, nel 1986, lo aveva nominato cittadino onorario
(numero 1020). Analogo riconoscimento lo ottenne il 12 ottobre 1991
dall’Università di Messina in occasione del quale tenne una conferenza dal
titolo: “Le mie volontà-testamento per
l’eliminazione e per la finale eradicazione globale della poliomielite e del
morbillo ”.
Per cinque anni consecutivi (dal 1985 al 1989, ad eccezione del
1988 per motivi di salute) venne a Torino per partecipare ad una serie di “Incontri Internazionali Multidisciplinari
sullo Sviluppo”, durante i quali ci fu possibile parlargli, stargli accanto
in diversi momenti della giornata, fruire della sua grande disponibilità.
Sempre puntuale agli appuntamenti, sempre disponibile, mai un rifiuto. Se una
signora gli chiedeva l’autografo si chinava sul foglio e scriveva, prima della
firma, una affettuosa dedica: “Sincerely”
o Very Friendly”. E tutto questo
nonostante abbia subito (negli anni ’80) un intervento chirurgico a causa di un
grave morbo: la sindrome di Barre-Lieu, nota con il nome più comune di
“paralisi ascendente”, che interessa il sistema simpatico compromettendo
funzioni neurovegetative e neurologiche; come pure l’essere stato sottoposto a
diversi by-pass aortocoronarici.
Morì a Washington il 3 marzo 1993 proprio per complicanze
cardiovascolari. Ma prima di morire ha avuto la soddisfazione di sapere che
erano passati 18 mesi dalla segnalazione dell’ultimo caso di poliomielite
nell’intero emisfero occidentale, dopo che l’Oms (attraverso il contributo
dell’ Expanded Programme for Immunization e il Programme for Vaccine
Development) aveva posto gli obiettivi primari di eradicare la malattia dal
Pianeta Terra entro il 2000. I suoi fini capelli bianchi non compariranno più
nelle Assise scientifiche, dove veniva accolto con simpatia e riconoscenza.
Questo grande scienziato mancherà a molti, anche a coloro che non lo hanno
conosciuto, il sorriso rassicurante, paterno. E a chi lo ha avvicinato
(compreso chi vi parla e scrive, il 26 settembre 1986 nella Sala Consiliare del
Comune di Torino), mancherà anche quella sua stretta di mano, calda e forte.
Qui è sepolto Sabin.
La moglie Heloise verrà sepolta accanto
Oggi, oltre due miliardi di persone nel
mondo non hanno mai corso il rischio di contrarre una grave invalidità causata
dalla poliomielite, grazie a uno
“zuccherino rosa” e al suo inventore. “Dobbiamo avere sempre speranze -
ripeteva -; nei miei lunghi anni ne ho viste disilluse alcune su cui contavo molto,
ma ho anche visto realizzarsi dei sogni che mi sembravano impossibili ”.
E a questo riguardo vorrei citare un
proverbio ebraico che risale a prima della nascita di Cristo, che dice: “Se non tieni a te stesso chi lo farà?”
Il che significa che ognuno di noi deve avere una propria responsabilità per migliorarsi
il più possibile. E poi, il detto continua così: “Ma se tieni solo a te stesso che cosa sei?” “Non basta lavorare per migliorare se stessi
- sosteneva Sabin - bisogna essere in grado di farlo anche per aiutare gli altri,
specialmente coloro che ne hanno più bisogno”.
La
campagna Polio Plus
Risultati si stanno completando anche
grazie alla campagna antipolio (Polio Plus) avviata dal Rotary Intyernational nel 1978-1979. Quindi siamo giunti al
traguardo? Si direbbe di si perché la poliomielite è ormai considerata dall’Oms
polio free: tra il 2004 e il 2005 non ci saranno più vittime del temibile “the
clipper”. Un obiettivo ormai raggiunto proprio grazie alla campagna antipolio
ideata da un rotariano, in particolare, l’industriale lombardo (di origine
istriana) Sergio Mulitsch di Palmemberg si adoperò sin dall’inizio per studiare
la fattibilità e la gestione del progetto Polio Plus.
Non si
trattava di lanciare solo una raccolta di fondi ma di scegliere i vaccini e
mettere a punto la strategia della loro somministrazione, disporre imballaggi
adatti per la conservazione a bassa temperatura dei farmaci, e gestire la
distribuzione. Grazie a
questa iniziativa l’Italia nel 1983 propose per prima l’eradicazione della
polio nel mondo. Dal 1985 alla fine del 2000 è stata realizzata una
immunizzazione efficace per circa 2 miliardi di bambini. Il piano “strategico”
del Rotary International si prefigge
di intensificare la campagna vaccinale e di eradicare totalmente entro il 2005
la polio nel mondo. Ancora oggi continuiamo a sperare in un mondo senza nuovi
casi di polio, e forse non è giusto parlare di un mondo senza polio perché non
bisogna dimenticare che esiste la 4a fase della malattia: la sindrome
post-polio.
Le “perle” più significative colte durante i
convegni e le interviste
“La scienza non deve avere alcun carattere
umanitario. La scienza, per sé stessa, deve avere come obiettivo la scoperta
delle cose. Questo, è il compito della scienza. Deve spiegare la natura; per
spiegare l’universo deve spiegare la ragione delle cose. Questo deve fare”.
“Un buon ricercatore deve avere un’enorme curiosità,
tenacia e una grande onestà. Se una sua scoperta gli sembra troppo bella per
essere vera, ci sono buone possibilità che non lo sia”.
“Io credo che sia responsabilità non solo degli scienziati,
ma di tutti gli altri esseri umani, e che sia la più grande di tutte le
responsabilità, far si che le conoscenze raggiunte dalla scienza e dalla
tecnologia possano diminuire la miseria sempre presente in varia misura, nella
condizione umana”.
“Quando considero il miracolo che è la vita, tutti i
milioni di specie diverse che sono state create, e come tutto funziona, io
accetto tutto, anche se non capisco come sia accaduto”.
“Dobbiamo avere sempre speranze. Nei miei 83 anni (disse
una volta, nel 1989) ne ho viste disilluse alcune su cui contavo molto, ma ho
anche visto realizzarsi dei sogni che mi sembravano impossibili”.
“La nostra vita non ha senso se non facciamo qualcosa per
il nostro prossimo”.
“Non accetto nessuna religione, ma sono religioso perché mi
trovo nell’insieme del creato… Quando considero il miracolo che è la vita, i
milioni di specie diverse esistenti, il fatto che tutto funzioni anche se io
non capisco come, e l’accetto, allora mi considero religioso”.
“Non dobbiamo morire in maniera troppo miserabile. La
Medicina deve impegnarsi perché la gente, arrivata a una certa età, possa
coricarsi e morire nel sonno senza soffrire”.
“Non cercare un premio, perché tu hai una grande ricompensa
su questa terra: la gioia spirituale che soltanto il giusto possiede”.
“Non basta lavorare per migliorare se stessi, bisogna
essere in grado di farlo anche per aiutare gi altri, specialmente coloro che ne
hanno più bisogno”.
EB